Ritratti d’autore

C’è una frase ricorrente, nelle lande venete, che fa così: Albania casa mia. È un grido di scorno, un invito ad andarsene verso un luogo più consono alle proprie caratteristiche anagrafiche. Aleksandros Memetaj, all’interno del festival Dominio Pubblico – la città agli under25, prende quest’offesa e la rivolta come un guanto. Con grandi doti affabulatorie, racconta una storia fatta di orgoglio, di lacrime amare e di lunghi arrivederci, ubriacando il pubblico di parole e rakija, un liquore che non perdona, a meno che a berlo non sia un vero albanese.

Persinsala ha intervistato per l’occasione l’attore e autore Aleksandros Memetaj.

Quale gloriosa accademia la ha formata come attore ed è riuscita nell’impresa di sradicare il suo accento duro, rozzo e fastidioso che immagino abbia caratterizzato gran parte della sua infanzia? Parlo di quello veneto, ovviamente.
Aleksandros Memetaj
: «Ho fatto la scuola Fondamenta qui a Roma, nel triennio 2012/2014. La mia insegnante di dizione era Giorgia Trasselli. In realtà, però, io non ho mai parlato il dialetto. Ho sempre trovato fastidiosa quella cadenza, fintanto che vivevo lì. Quando ho iniziato a studiare, invece, mi sono reso conto che poteva essere una ricchezza. Improvvisamente ho iniziato a parlare anche il dialetto, avendolo sentito per 20 anni. Giorgia mi ha portato a fare attenzione, come è giusto che sia per il nostro lavoro, a qualsiasi frase io dicessi durante il giorno, in qualsiasi situazione (dalla scuola, al lavoro, a casa). È durato più o meno un anno. Ripetevo le frasi continuamente. Sono contento sia servito. Vorrei inoltre dirle che comunque ci sono stati anche altri professionisti che in questi primi anni sono stati per me fondamentali: Andrea Pangallo, Giampiero Rappa, Cristiano Vaccaro, Giancarlo Fares, Giancarlo Sammartano, Alessandro Quarta».

La scenografia essenziale e i movimenti ridotti all’osso focalizzano inevitabilmente l’attenzione su di lei, che non perde mai il ritmo e mantiene viva l’attenzione del pubblico con grande abilità. Mi tolga però un dubbio: perché ha scelto di vestirsi con abiti sdruciti a prescindere dall’estensione dell’arco narrativo?
AM: «La ringrazio per i complimenti. Per quanto riguarda gli abiti, c’è una storia dietro. Durante le prove a novembre, prima di andare in scena al teatro Argot Studio, ogni giorno io venivo in tuta, ovviamente. Con Rappa si pensava inizialmente di vestirmi in modo elegante e poi spogliarmi durante la narrazione, eventualmente. Un giorno arrivai alle prove con una felpa scura. Provai la parte del “viaggio della speranza” (il viaggio finale per intenderci) e con estrema naturalezza quella felpa divenne il figlio, divenne me stesso da neonato. Si è creato quindi un “rapporto” tra me e quella felpa e Rappa si convinse immediatamente. Dicendo a fine prova: “questo è il costume di scena”. Quindi, si potrebbe dire, che è successo. Non l’abbiamo deciso. Abbiamo accettato questo evento. Alla fine quindi sono rimasto vestito con una felpa scucita e dei pantaloni bucati. Una scelta sicuramente povera e forse ancor più significativa».

Cresciuto liquido tra i liquidi, dove trova un appiglio di appartenenza? In cosa, o in chi, si identifica?
AM: «Lo dico due volte nel testo. La prima in modo più diretto. Io “sto in mezzo”. Ogni volta che percorro in nave il tragitto da Brindisi a Valona e viceversa, nel momento in cui non vedo nessuna delle due terre. Lì, dentro di me accade qualcosa. Mi sento figlio di questo viaggio. Figlio del mare, anche se può sembrare marinaresco come concetto. Non sono albanese perché cresciuto in Italia. Non sono italiano perché nato in Albania. Secondo lo Stato io sono un cittadino italiano, anche se tuttora quando vedono il mio nome mi chiedono il permesso di soggiorno, cosa che evidentemente non posso avere. Per un aspetto strettamente culturale mi sento di dire che sono entrambe. Sono anche il “simbolo” di una popolazione che migra. Sono uno dei tanti giovani che fanno fatica a sopravvivere, perché da 5 anni vivo da solo e mi mantengo da solo per inseguire un sogno. Cosa diventata difficilissima nel 2016 in Italia. Mi reputo uno “diverso”. Dentro di me sono cresciute e vivono due culture diverse. Questo mi fa sentire più ricco, sotto un certo aspetto. Poi, c’è da dire che comunque io sto cercando di fare l’artista nella vita. Faccio l’attore e scrivo. Questi due aspetti fondamentali della mia quotidianità mi pongono in una situazione di immersione ed osservazione , al tempo stesso, della società. Ultima cosa, in tutto questo bel parlare comunque non posso non ammettere che dentro sento lo strappo dal luogo in cui sono nato. Lo rivivo ogni volta che torno a Valona. Mi ribolle il sangue quando vedo la mia terra. Probabilmente se l’avessi vissuta a lungo, non proverei questa sensazione, ma non averla potuta vivere mi porta a soffrire di questo strappo».

Come hanno reagito i suoi genitori dopo aver assistito a questo gesto di amore filiale così intimo?
AM: «Ehhhh…. Mamma ha pianto dall’inizio alla fine dello spettacolo ma lei piange sempre. È molto fiera di me e della scelta che ho fatto, perché sa che è davvero la passione più grande della mia vita. Conosce gli sforzi e i sacrifici che sto facendo e li capisce meglio di chiunque altro perché lei ha vissuto in uno stato di povertà tremendo da giovane. Mamma sapeva che cosa stavo scrivendo anche perché i dettagli dell’arrivo al porto, il salto del muro, sono cose che ho chiesto a lei, avendo avuto io solo 6 mesi all’epoca. Mio padre, invece, non sapeva nemmeno di che parlasse il testo. Ed è stata la prima volta in cui mi ha visto fare spettacolo. Papà ha sempre rifiutato questa mia idea di voler fare l’artista, la vedeva come una perdita di tempo. Poi a dicembre è venuto all’Argot. Scoprire che in realtà è un grande omaggio soprattutto a lui, dedicato a lui, lo ha scosso moltissimo. Tremava tutto quando siamo usciti dal teatro. Lì per lì non mi ha detto nulla, mio padre non parla molto. Mi ha soltanto detto ”portami in stazione che c’è il treno”. Il giorno dopo, quando gli è passato un po’ lo stupore, mi ha chiamato e mi ha fatto capire che mi avrebbe iniziato a sostenere anche lui in questo mio percorso. Ora entrambi sono vivi sostenitori della “causa Aleksandros” diciamo. La cosa che più mi ha stupito è stata la reazione di mio fratello, Marco. Lui ha 15 anni oggi quindi non ha vissuto ciò che ho vissuto io. Quando ho finito mi ha abbracciato piangendomi addosso e dicendomi: “non sapevo avessi passato queste cose brutte, Ale”. Credo di essere, purtroppo per lui, il suo eroe o comunque essendo io il fratello maggiore ho una grande importanza nella sua crescita umana e spero che questo spettacolo in parte possa aiutarlo a capire un po’ come vanno le cose nel mondo».

Oggi la questione migrazione è quanto mai topica. Al di là della rabbia per una società cieca al dolore altrui, cosa prova nell’assistere a un’avanzata quasi inesorabile di estremisti destroidi?
AM: «Lo dico onestamente: vado in giro per le strade di Roma e vedo i manifesti di Iorio e mi viene da ridere. Non è un riso di strafottenza. Mi fanno un po’ pena. L’ignoranza genera paura e razzismo. Non servo io per rivelare questa grande realtà al mondo. Ma anche senza fermarsi a Iorio, la Lega è un altro di quei grandi movimenti di ignoranza, dove, anzi, si usano immagini tristissime per fare slogan e umorismo su degli argomenti seri. Io non faccio politica. Quindi non mi voglio soffermare su un partito X o Y. Le parlo in generale e le dico che nessuno può permettersi di ironizzare o trattare senza rispetto chiunque scappi dalla propria terra. Sa cosa vuol dire, scappare dalla propria terra? Partendo dal presupposto che la mamma degli scemi è sempre e ovunque incinta. Io ho sempre detestato chi dice: “i rumeni così… gli albanesi così… fanno, sbrigano, smerciano, rubano… i negri”. L’immigrazione è un fenomeno connaturato nella natura dell’uomo. L’uomo si sposta, da sempre, per cercare condizioni più favorevoli che agevolino, o in alcuni casi permettano, di vivere. I puri padani di oggi non sono figli, spesso, di immigrati dal Sud Italia? Gli italiani agli inizi del 900 che cos’erano? Non erano immigrati? L’America, nei secoli, su chi si è costruita se non su immigrati? Non mi pare che ci siano solo i “nativi d’America”, oltre oceano, anzi. Non ci si può permettere di screditare e di non aiutare chi scappa dalla propria terra. Perché solo cause gravi ti portano ad abbandonare casa tua. Se così non fosse vivremmo tutti per le strade, o sbaglio? A me sembra invece che ognuno di noi giustamente ci tenga a vivere al meglio, in un posto sicuro che possa chiamare casa. Date queste premesse, se si è disposti a scappare da casa vuol dire che le condizioni che esistono in casa ti impediscono di vivere. Ogni volta che vedo il volto di una madre, di un padre, di un figlio, di un ragazzo qualsiasi vedo la fame e la speranza, già vanificata, di un mondo migliore. Sono tutti occhi che piangono. Mi si spezza il cuore. Spero un giorno di poter fare qualcosa».

Albania casa mia è la storia di una scelta fatta in nome del futuro. Cosa la aspetta nei prossimi mesi, a livello teatrale?
AM: «Sicuramente lavorerò ancora al testo di Albania casa mia. Sono un pignolo stakanovista e mi piace trovare sempre il difetto in ciò che faccio. Credo sia la molla principale del miglioramento di un artista: non sentirsi mai appagato a pieno. Non escludo l’ipotesi di allungarlo, aggiungere qualcosa, ma c’è tempo. Quest’estate porterò lo spettacolo a Milano, Bologna e Genova. Siamo in trattativa con varie realtà in giro per l’Italia, per inserire lo spettacolo nella stagione 2016/2017. Tolto questo grosso capitolo, continuo a lavorare e allenarmi ogni giorno con il Nogu Teatro (compagnia con cui lavoro da un anno e mezzo, qui a Roma). Stiamo preparando dei buonissimi lavori per l’anno prossimo. Sto scrivendo tre testi nuovi, però io non sono uno di quelli che si fa prendere dall’ansia di produrre come una catena di montaggio. Ho 24 anni e la cosa che veramente mi preme in questo momento è crescere tecnicamente. Imparare, imparare, imparare e allenarmi. Sempre. Farmi trovare pronto e, quando riesco, dedicarmi alla stesura di miei nuovi lavori. La collaborazione con Giampiero Rappa sicuramente sfornerà un altro prodotto. Spero anche di continuare a lavorare con la famiglia del Teatro Argot Studio perché credo sia una dimensione che ha deciso di investire davvero su progetti di valore e soprattutto di dare spazio alle giovani realtà. Questo è merito di Tiziano Panici, Maurizio Panici, Francesco Frangipane, Danilo, Ornella, Giulia, Ludovica e tutti i collaboratori. Insomma, io da parte mia, prometto di continuare a lavorare assiduamente e di cercare di mantenere alto lo standard dei miei lavori, e dove possibile anche migliorarlo. Poi il resto verrà da sé, si spera. Si dice che chi semina raccoglie, quindi…».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Orologio

via dei Filippini 14a – Roma
venerdì 3 giugno, ore 20.00

Albania casa mia
di e con Aleksandros Memetaj
regia Giampiero Rappa
aiuto regia Alberto Basaluzzo
produzione Argot produzioni
durata 1 ora circa