Sofocle non abita più qui

Sul palco del Teatro Argentina di Roma, l’anti-eroina per antonomasia, Antigone, nella traballante e di dubbia attualizzazione versione di Federico Tiezzi.

L’Antigone di Sofocle è un testo che, ormai da secoli, mostra una clamorosa capacità di adattamento a mutate condizioni storiche e artistiche e dà luogo ad allestimenti anche profondamente divergenti, ma, quando riusciti, di radicale e profondissima inattualità.

Se nel corso del Novecento, la tragedia è stata spesso declinata nei termini del conflitto politico-ideale e in funzione anti-totalitaria (Jean Anouilh accomunava, per contrarietà, il dramma della solitudine di Antigone e quello istituzionale di Creonte; Bertold Brecht, a partire dalla traduzione di Hölderlin, presentava il tiranno nelle vesti di duce) o come rivendicazione filosofica dell’alterità (La rivelazione greca, Simone Weil), l’Antigone è ormai assunto a classico, ossia a narrazione «che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (Perché leggere i classici, Italo Calvino).

Tra la «Legge del sangue o degli dei inferi» incarnata da Antigone e la «Legge della polis, o degli dèi» rappresentata da Creonte (Fenomenologia dello Spirito, Hegel), tra l’incommensurabile distanza generazionale dei protagonisti e la dialettica alternativa tra i modelli di società, il conflitto non potrebbe essere più inconciliabile, la frattura insanabile, la contraddizione paradossale.

Tra Creonte e Antigone, la scelta sarà tra il sì e il no: tra chi, per motivazioni di ordine psicologico e/o sociale, affermando l’impossibilità del contraddittorio rispetto alla legge positiva, omologa a sé ogni differenza (di genere, di status, di intelligenza) e chi, negando ogni contrazione della libertà e della responsabilità soggettiva, rifiuta drammaticamente la riduzione dell’alterità alla direzione intellettuale e morale di un pensiero che tende a imporsi quale egemonia culturale.

Ma, come se la faccenda non fosse già tremendamente complicata, la versione sofoclea pone interrogativi che solo un’anima bella potrebbe pensare di risolvere attraverso la spontanea adesione al punto di vista di Antigone. Decidere da che parte stare è, infatti, ben più arduo di quanto possa sembrare, essendo in gioco – da un lato – l’eroico furore adolescenziale delle ragioni ideali della piccola figlia di Edipo e – dall’altro – il destino stesso della polis, ossia di una civiltà organizzata attraverso la gestione non più arcaica ma positiva di una giustizia imparziale e impersonale, dunque il sorgere della nostra stessa società democratica, di quello Stato di diritto di cui l’Occidente si vanta essere stato lo scopritore.

Tiezzi raccoglie la complessità di questa sfida e propone, all’interno della propria trasposizione, «un conflitto generazionale, nel quale è la ragazza a sostenere la tesi più arcaica e reazionaria, quella della superiorità delle ragioni religiose su quelle politiche», ma anche «una guerra dei sessi» in cui «la determinazione di Antigone mette in crisi in Creonte la sua posizione di maschio, come evidenziato da una sua considerazione al figlio Emone». Creonte, sussumendo queste due posizioni, dirà esplicitamente «bisogna difendere l’ordine costituito – e non permettere che le donne abbiano la meglio su di noi. Se proprio si deve perdere, meglio essere vinti dalla mano di un maschio, senza che si dica in giro che siamo inferiori alle femmine».

La scenografia è un ospedale-obitorio. Al suo interno, senza soluzione di continuità, si alterneranno le sorelle diverse Antigone e Ismene, letti occupati da cadaveri, racconti sulla guerra tra Tebe e Argo di corpi destati dalla morte per assecondare Creonte, il cui solenne ingresso tradirà da subito una delle scelte più disfunzionali dell’intero allestimento. Vesta corali color porpora, quasi papali, accompagnate da un incedere gestuale e vocale costantemente – e inopportunamente – enfatico restituiscono, infatti, l’insostenibile distanza di un personaggio dall’approccio oltremisura retorico e d’antan.

Se il coro segue inquieto un dibattito che finirà per sovrastarlo scenicamente, rimanendo ai margini del senso della rappresentazione perché eccessivamente sovrastrutturale, quasi caricaturale, la recitazione di Sandro Lombardi paga pesantemente un’ingessatura che, purtroppo, non trova nessuna compensazione in un cast cui pure non mancherebbe talento e personalità scenica (da Marco Brinzi a Lucrezia Guidone, da Francesca Mazza ad Annibale Pavone, ecc). Dal canto suo, la regia, alla disperata ricerca di una struttura drammatica contemporanea capace di concentrare l’interesse sulle angosce umane dei propri protagonisti e, di conseguenza, di prolungare all’oggi il senso antico della tragedia, tenta invano di assicurare movimento e varietà all’azione non riuscendo, tuttavia, a rendere incalzante il ritmo di una produzione inutilmente monumentale nelle scene e nella durata e mai coinvolgente nello sviluppo smisuratamente dettagliato di lunghi e pedanti quadri, come quello in cui una discutibilissima Tiresia (colui che, racconta il mito, visse sia i piaceri di uomo, sia di donna) compare nelle vesti non tanto di indovino cieco, quanto di matrona lasciva e provocatrice.

L’approfondimento psicologico sofocleo, edulcorato da confusi sincretismi stilistici e di linguaggio, remoti tanto dall’annuncio di un futuro distopico, quanto dalla descrizione di un presente tragico o dalla reminiscenza di un passato cruciale, annaspa nelle dissertazioni di personaggi talmente introversi nella costruzione drammaturgica che spiegano e si giustificano quasi monologando su ciò che sentono, e, privati di pathos e possibilità di identificazione, finiscono per banalizzarsi, mettendo ai margini quei conflitti che, pure, ne rappresentavano il focus.

Pur con il potenzialmente interessante primato consegnato a Creonte, la differenza tra caratteri (di Creonte e Antigone, di Creonte ed Emone, di Antigone e Ismene), ipotetico architrave di un conflitto poi da identificare nell’opposizione dialettica e prossemica dei personaggi, viene quasi accantonata a favore di lunghe invettive, le quali, seguite da scambi brevi e perentori, oltre a tradire l’assenza di autenticità di un tono fermo ma non vibrante, non riescono a lasciar infondere tutto il proprio fervore alla tragedia e a fare perno sullo scontro dell'(in)azione tra i protagonisti.

All’estrema chiarezza delle intenzioni e all’ambizione di complicare le posizioni in campo per cercare di mettere alla prova i contrasti morali di cui vorrebbe essere viva testimonianza, l’Antigone di Tiezzi, delineando le proprie scelte con contorni sfumati e controversi, amplificando con manierismo personaggi, costumi e situazioni, godendo quasi esclusivamente di una suggestiva ambientazione scenografica, è mancato allora, purtroppo e di fatto, nell’atto di restituire con l’adeguato rigore la drammatizzazione delle proprie antitesi, incapace di resistere alla caduta in contrapposizioni deboli che hanno finito per frammentare le diverse polarità/dualità di un progetto risultato, forse, troppo audace nel voler essere tanto classico, quanto contemporaneo.

Lo spettacolo continua:
Teatro Argentina

Largo di Torre Argentina 52, Roma
dal 27 febbraio al 29 marzo 2018
martedì e venerdì ore 21, mercoledì e sabato ore 19, giovedì e domenica ore 17

Antigone
di Sofocle
traduzione Simone Beta
drammaturgia Sandro Lombardi e Federico Tiezzi
regia Federico Tiezzi
con Ivan Alovisio, Marco Brinzi, Carla Chiarelli, Lucrezia Guidone, Lorenzo Lavia, Sandro Lombardi, Francesca Mazza, Annibale Pavone, Federica Rosellini, Josafat Vagni, Massimo Verdastro
e con Francesca Benedetti
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Compagnia Lombardi Tiezzi