Sentimento, intrighi e lotta per il dominio

teatro-eliseo-roma-80x80Dal lusso della corte alessandrina al dramma della sconfitta, della solitudine e della folle gelosia. Luca De Fusco ripercorre la tragedia dei due amanti che tentarono l’impossibile unione di Roma con l’Egitto, dell’Oriente e dell’Occidente, fino a perire entrambi suicidi in un finale epico che nessun autore avrebbe potuto scrivere più degnamente di loro stessi.

Antonio e Cleopatra, la più grande storia d’amore (e politica) dell’antichità, rivive nel potente allestimento di Luca De Fusco, in scena fino a domenica 9 febbraio al teatro Eliseo di Roma.
Nella visione di Shakespeare, molto vicina agli avvenimenti realmente accaduti secondo il racconto degli storici romani dell’epoca, la tragedia d’Oriente non è semplicemente il seguito del Giulio Cesare dopo la battaglia di Filippi e la sconfitta dei congiurati. Il grande Bardo mette infatti in scena un dramma crepuscolare, tipico dell’età adulta, dove non a caso ai temi classici del suo “metamondo” (l’amore, la gelosia, l’amicizia, l’onore, la lealtà, il tradimento, la guerra), si aggiunge un drammatico conflitto generazionale, che vede da una parte Cleopatra e Marco Antonio, contemporanei di Cesare ed entrambi a lui molto devoti, e dall’altra il giovane Ottaviano, suo lontano parente, che dopo le idi di Marzo ne aveva assunto il nome e si era autoproclamato suo erede politico. Uomo ambizioso quanto accorto, e immune alle tentazioni che avrebbero potuto distoglierlo dal suo obiettivo politico, Ottaviano non avrà pietà nello sfruttare i loro errori e le loro umane debolezze, fino a rimanere l’unico padrone di Roma e del Mediterraneo.

La storia prende avvio dall’arrivo ad Alessandria della notizia della morte di Flavia, moglie di Marco Antonio, rimasta a Roma a complottare inutilmente contro Ottaviano. Tale evento costringe Antonio a lasciare Cleopatra in Egitto dopo un anno di giochi amorosi per rientrare urgentemente in Italia. Qui, con la mediazione del terzo triumviro Lepido e di altri senatori, accetta di sposare Ottavia, sorella del giovane collega, per sancire una nuova tregua con lui, ma presto il suo cuore di militare e di uomo lo riporterà fatalmente verso l’Oriente. Rientrato ad Alessandria per guidare l’esercito orientale alla conquista dell’Armenia, dopo il suo trionfo Marco Antonio inizia a sfidare il potere di Ottaviano. Quando Roma dichiara guerra all’Egitto di Cleopatra, Antonio rimane al suo fianco, ma compie l’errore fatale di trascurare gli avvertimenti degli amici – primo tra tutti Enobarbo – accettando la sfida di Ottaviano ad una battaglia navale (quella di Azio, 31 a.C., vinta per lui dall’ammiraglio Marco Vipsanio Agrippa), anziché attenderlo sulla terraferma, dove avrebbe potuto sfruttare la superiorità numerica e il proprio personale valore di comandante. La viltà di Cleopatra, che approfitta di un momento favorevole non per contrattaccare ma per fuggire con sessanta delle sue navi fa il resto: Antonio perde letteralmente la testa e la insegue verso Alessandria, dimentico di tutto e di tutti, abbandonando la propria flotta e il proprio esercito al loro destino.

Nel secondo atto il tempo si dilata e assistiamo lentamente al decadimento fisico e mentale di Marco Antonio, ormai ridotto all’ombra del grande condottiero che era stato. Di fronte alla dura realtà della sconfitta, è infatti rimasto ben poco del vincitore di Filippi e del grande oratore capace a suo tempo di infiammare con poche parole il popolo di Roma davanti al cadavere dell’«ambizioso» Cesare. Antonio ormai si trascina stancamente all’interno del palazzo reale di Alessandria, abbandonato da molti e tra questi perfino da Enobarbo. Ma, nonostante farnetichi ormai inverosimili piani di riscossa, l’ex triunviro non perde la sua grandezza d’animo: rimanda infatti all’ex amico i suoi beni, abbandonati nella fretta della fuga, e tanta generosità commuove Enobarbo, che la confronta con la propria viltà, fino a preferire il suicidio. Identica sorte sceglierà più tardi Eros, che nell’ora estrema preferirà uccidersi per primo «per non vedere la morte di Antonio».
Iniziano così i giorni dell’attesa, durante i quali Marco Antonio è talvolta in lite e altre in accordo con Cleopatra, di cui comunque sente di non poter più fare a meno. Ma nonostante le illusioni e le continue recriminazioni dei due maturi amanti, il tempo sta ormai per scadere: l’arrivo dell’inarrestabile Ottaviano e del suo esercito sotto la mura di Alessandria rende inevitabile il compiersi della tragedia finale, che a questo punto non riguarda più tanto due figure politiche, ormai comunque irrimediabilmente sconfitte, quanto più semplicemente un uomo e una donna, prigionieri di un destino di morte.
Come nel Romeo e Giulietta, è un involontario inganno ad innescarlo: ricevuto un messaggio di addio da Cleopatra, autoreclusasi nel suo inespugnabile mausoleo con le due ancelle più fedeli, Antonio tenta il suicidio un attimo prima di sapere la verità. Poiché la ferita è grave ma non ancora mortale, riesce allora a trascinarsi drammaticamente sotto la sua finestra e a resistere il tempo necessario per morire tra le braccia della donna che più ha amato nella sua vita, e che di lì a poco – fallito un estremo tentativo di seduzione dell’impassibile Ottaviano – lo seguirà anche nell’aldilà. A riscattare la sua freddezza d’animo, nel finale Ottaviano, che con il suicidio di Cleopatra vede sfumare il suo desiderio di riportare a Roma in catene la regina d’Egitto, concede ai due amanti una solenne sepoltura insieme.

Per una volta si potrebbe azzardare a sostenere che in fondo Shakespeare non ha grandi meriti nella composizione dell’Antonio e Cleopatra, almeno per quanto riguarda i personaggi principali: gli stessi protagonisti in carne ed ossa avevano infatti già reso immortale la loro vita e la loro morte sedici secoli prima, fornendo essi stessi molti spunti narrativi per altre storie. Il Bardo è però come sempre insuperabile (sia pure a prezzo di alcune perdonabilissime inesattezze storiche) nel presentare la maturazione psicologica dei personaggi e nello scegliere i comprimari da affiancargli.
Ai giorni nostri, non è stato da meno l’allestimento di De Fusco: rifiutato ogni facile esotismo di maniera, all’apertura del sipario si resta forse un po’ scioccati dalla prima, lugubre, immagine che appare davanti agli occhi – presagio del grande spargimento di sangue che sarà provocato dalla nuova guerra civile – a cui però fa seguito l’apparizione dei primi personaggi, i cui ricercati costumi e acconciature li fanno apparire simili a statue viventi, del tutto coerenti con il mondo romano-ellenistico in cui si svolsero (e si svolgono in scena) i fatti.
Molto efficace anche la scelta di allestire molte scene in alto, sopra la grande struttura che fungerà via via da scalinata, palazzo imperiale, mausoleo di Cleopatra. Funzionale anche la resa dell’incomunicabilità tra Ottaviano e Antonio, che anche nelle scene in cui interagiscono mantengono plasticamente la posizione frontale, senza mai guardarsi negli occhi.
Un po’ meno convincente la scelta – ahinoi, sempre più diffusa – di collocare quasi tutte le scene dietro un velo nero che sovente funge da schermo dove vengono proiettati i primi piani degli attori in palcoscenico, oppure alcune immagini “esplicative” (per esempio la stretta di mano tra Ottaviano e Antonio dopo la momentanea riconciliazione) che in realtà nel proscenio non avvengono.
Esemplare, infine, la recitazione degli attori: dalle ancelle ai comprimari, fino ai tre protagonisti principali: Giacinto Palmarini è lo ieratico Ottaviano, Gaia Aprea è una Cleopatra matura, appassionata e convincente, mentre Luca Lazzareschi, soprattutto nel secondo atto, fa pensare al crepuscolo di Marlon Brando nella sua interpretazione di un Marco Antonio dall’incedere incerto e sempre più preda della sua disperata follia.

Lo spettacolo continua:
Teatro Eliseo
via Nazionale, 183 – Roma
fino a domenica 9 febbraio 2014
orari: martedì, giovedì e venerdì ore 20.45; mercoledì e domenica ore 17.00; sabato ore 16.30 e 20.45 (lunedì riposo)

Antonio e Cleopatra
di William Shakespeare
traduzione di Gianni Garrera
regia Luca De Fusco
con Luca Lazzareschi, Gaia Aprea, Giacinto Palmarini, Paolo Cresta, Stefano Ferraro, Serena Marziale, Alfonso Postiglione, Federica Sandrini, Gabriele Saurio, Paolo Serra, Enzo Turrin
e con la partecipazione in video di Eros Pagni e del corpo di ballo del teatro San Carlo di Napoli
scene Maurizio Balò
costumi Zaira de Vincentiis
luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
coreografie Alessandra Panzavolta
produzione Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Arena del Sole | Nuova Scena – Teatro Stabile di Bologna