Una foto per immortalare, una foto per dimenticare

Tindaro Granata ci racconta, all’Elfo Puccini, la storia della sua famiglia con l’occhio di chi ama le proprie origini e tradizioni ma è anche consapevole che qualcosa deve cambiare.

Quando uno spettacolo ti prende fin dall’inizio c’è poco da fare: sei ben disposto e tutto rientra in un’ottica di apprezzamento. Ma in questo caso, l’aspetto esaltante è che l’intero spettacolo sembra essere un continuo inizio: un vortice fluttuante di emozioni, personaggi, storie drammatiche alternati ad aneddoti divertenti che – proprio come quando eravamo piccoli – non ci lasciano il tempo di pensare dove siamo, riuscendo a immergerci completamente nel contesto del racconto.

Tutto si basa infatti sul cunto, il racconto che mescola l’epos familiare dei Granata con leggende e storie tradizionali della cultura Siciliana: l’abilità e la fluidità con la quale Tindaro riesce – con pochissimo – a passare da un personaggio all’altro rendono vivo sul palco ogni esponente della famiglia, con una naturalezza che è al tempo stesso affascinante e straniante: non si ha modo di affezionarsi a un personaggio che subito si passa alla generazione successiva o si torna indietro in una sorta di flashback esplicativo.
Epos familiare – quello dei Granata – perché anche se manca il nucleo centrale del viaggio (dal momento che quasi tutti i membri rimangono in terra sicula), ci sono tutti gli altri aspetti che caratterizzerebbero dei personaggi epici: la predestinazione sociale; il legame quasi morboso con la propria terra – che non permette di evolversi se non andandosene; la lotta contro “divinità” avverse e apparentemente invincibili: il pregiudizio, il codice d’onore ma soprattutto la mafia.
E infatti, dal racconto di Tindaro emergono altresì le costanti difficoltà incontrate dai suoi parenti nel fronteggiare i Badalamenti – potentissima famiglia mafiosa del messinese che mette costantemente sotto scacco la volontà di ascesa sociale e di miglioramento dei Granata: dal bisnonno di Tindaro, Francesco, che si impicca pur di non scendere a compromessi col dottor Badalamenti (il quale gli chiede tutto quello che ha per farlo curare in una clinica milanese); al nonno, omonimo di Tindaro, che probabilmente compie un omicidio al servizio della cosca pur di guadagnare due soldi; fino al padre che, tornato dalla Svizzera, deve garantire i voti della propria famiglia al figlio di Badalamenti, candidato sindaco, se vuole aprire la falegnameria tanto desiderata; per arrivare infine a Tindaro stesso, l’unico che finalmente riesce ad abbandonare la Sicilia per perseguire, senza compromessi, il sogno di diventare attore; e ciò che è più importante è che Tindaro cerchi soprattutto di portare con sé anche un caro amico, il nipote di Badalamenti, per evitare che anche lui rimanga intrappolato nell’ineluttabile destino da malavitoso che lo attende, perché – come dice Tindaro – se una casa è pericolante e rovinata, incominci a ricostruirla da fuori e solo dopo puoi abbellirla dentro.

Di questi personaggi Tindaro scatta delle istantanee, che come in un cartone animato si susseguono veloci per dare l’impressione del movimento, e allo tesso modo noi spettatori compiamo un viaggio nel Novecento, dove si mescolano fenomeni di costume tipici dei decenni passati (la difficoltà, per il meridione, di convertirsi dal lavoro manuale a quello in fabbrica; le fuitine per sfuggire al patriarcato che non concepiva i matrimoni d’amore), attraverso personaggi ai quali ci affezioniamo: è impossibile non commuoversi quando le donne della famiglia piangono i loro morti o soffrono partorendo da sole; così come ridiamo quando le stesse donne, da anziane, aiutano il protagonista-contastorie a crescere tra racconti di famiglia, leggende, superstizioni e aneddoti divertenti. Sebbene queste foto, da una parte, rimandino con affetto a origini e tradizioni; dall’altra, sono strumenti indispensabili per prendere atto di ciò che non va in modo da poterlo cambiare.

Uno spettacolo consigliato a chiunque, soprattutto perché il dialetto non è limitante ma, anzi, fa colore: un dialetto grezzo, verace e, per questo, chiaro, in quanto recupera aspetti che chiunque può ricomprendere nella propria cultura, esprimendosi soprattutto attraverso la gestualità e la mimica facciale, lasciando di conseguenza intuire, con una nota più vivace, quanto che si sta raccontando.

Lo spettacolo continua:
Teatro Elfo Puccini

c.so Buenos Aires, 33 – Milano
fino a domenica 5 febbraio

Antropolaroid
di e con Tindaro Granata
direzione tecnica Margherita Baldoni e Guido Buganza
elaborazioni musicali Daniele D’Angelo
tecnico luci e suoni Matteo Crespi
Premio della giuria popolare della borsa teatrale Anna Pancirolli 2010 – Premio della critica teatrale 2011