Ritratti d’Autore

Persinsala ha incontrato Armando Punzo a pochi giorni dall’inizio del Festival di Volterra. Drammaturgo e regista napoletano, originario di Cercola, Punzo è stato tra i promotori dei progetti di teatro in carcere in Italia con i detenuti dell’istituto penale di Volterra, è qui infatti che nel 1988 fonda la Compagnia della Fortezza.

Direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra e del festival Volterra Teatro, nel corso della sua carriera ha diretto innumerevoli spettacoli ottenendo importanti riconoscimenti tra cui numerosi premi UBU.
Nel 2004 ha ideato il progetto co-finanziato dalla Comunità Europea dal titolo Teatro e Carcere in Europa – formazione e sviluppo e divulgazione di metodologie innovative, in collaborazione con alcune delle più importanti strutture europee che si occupano di teatro e carcere. Importante è stata anche la collaborazione con la regista Zeina Daccache, attiva nel carcere di Roumieh a Beirut, in Libano, dove il regista ha tenuto un laboratorio nell’ambito del progetto Drama therapy in prison: a new artistic platform.

Il nuovo obiettivo che sta portando avanti ora Punzo riguarda la realizzazione e il riconoscimento istituzionale del primo Teatro Stabile in carcere della storia: trasformare la Compagnia in teatro stabile e fare del carcere di Volterra un vero e proprio istituto di recupero attraverso la cultura piuttosto che di pena.

Intervista realizzata in carcere il 14/06/2014

Come sente e vive il suo ruolo di regista in rapporto all’Istituzione e alla Compagnia?
Armando Punzo: «A volte, rispetto all’istituzione è come predicare ai sassi. Mi accorgo di essere un corpo estraneo che è come un reagente. Per cui se non c’è il reagente tutto rimane uguale, mentre quando ne metti qualche goccia metti in moto processi che fino a quel momento non erano possibili. Mi sento come un qualsiasi innovatore che paga il prezzo di esserlo. Rispetto alla Compagnia io sono l’incarnazione di una vita completamente altra, portatore di modalità e visioni altre».

Lei hai detto più volte che non usa una metodologia precisa: come si approccia al lavoro con i detenuti? Quale comportamento assume con i nuovi arrivati ?
AP: «Non c’è una metodologia canonica nel senso che io voglio che tutti possano entrare nel lavoro di costruzione attraverso improvvisazioni e proposte. Quando inziamo a lavorare a un nuovo spettacolo inizialmente frammentiamo il testo e poi ci dedichiamo a un lavoro di ricomposizione in modo da ricreare lo spirito dell’autore e il suo meccanismo creativo».

In questo periodo su cosa state lavorando?
AP: «Stiamo lavorando a una nostra biografia ideale, che è poi Genet e la sua operazione creativa cioè il saper trasformare ciò che è improponibile in oro. Un Genet “alchimista” in cui io mi ritrovo per quello che ho fatto in questi anni. Mi piacciono gli alchimisti dal punto di vista filosofico e credo che, in questo senso, la pratica alchimista sia straordinaria. Mi interessa meno se l’oro dell’alchimista è un vile oro».

Quali sono le differenze e le problematiche che si riscontrano nel realizzare uno spettacolo in carcere?
AP: «Una dei problemi in cui mi imbatto è che per me il lavoro che svolgo nel carcere è teatro mentre per l’istituzione è un’attività e come tale soggetta a una serie di limiti».

In molte interviste Lei afferma che nel lavoro della Compagnia sono ricorrenti tre parole “Necessità, bisogno, impossibilità”. Ci può spiegare meglio il significato che dà a questi termini?
AP: «Credo che sia una grande aspirazione per me e penso anche per gli artisti. Si può affrontare l’arte solo se si è mossi da una grande necessità, che è il bisogno di andare oltre una visione comune ma senza nessuno spregio per le persone comuni. “Impossibile” perchè purtroppo agli altri tutto questo sembra irrealizzabile e quindi le persone ti restituiscono questa loro impossibilità e a volte non ti aiutano: non guardano al di là».

Enzo Moscato nel ‘93 raccontando le sue impressioni dopo aver assistito allo spettacolo Il Corrente, afferma che il “desiderio di teatro si fa tanto più acceso, tanto più violento, tanto più intransigente, quanto più sono impedite, inibite, impraticabili le vie canoniche tradizionali, per metterlo in atto”. Lei cosa ne pensa?
AP: «Il problema enorme è che c’è anche un modo di essere artista contro gli artisti che piegano la loro arte a altri fini e, in questi casi, seguire la canonicità del fare è un modo per depotenziare l’arte, per ingraziarsi un pubblico, la politica e il potere in generale».

Quando ha iniziato a fare teatro con i detenuti di Volterra come hanno accolto il suo lavoro?
AP: «Ho iniziato ventisei anni fa. Oggi tutto questo sembra più normale. A seguito della Compagnia della Fortezza sono note più di cento esperienze di teatro in carcere. I detenuti all’inizio mi vedevano come un personaggio strano e né loro né le istituzioni riuscivano ad inquadrarmi».

Da cosa parte quando comincia a lavorare alla messinscena di uno spettacolo?
AP: «Da una constatazione sulla nostra realtà: quello che viviamo tutti i giorni e i contrasti che vengono opposti a quest’esperienza. Poi c’è un’idea basata sul vissuto concreto. Si affronta un conflitto (faccio riferimento al nostro conflitto e a quello che gli altri hanno con noi) per arrivare a superare tutto questo, per arrivare a un’opera che si affranchi anche da noi».

Quanto è difficile far capire al pubblico che i detenuti devono essere considerati attori e far capire che il laboratorio non è solo terapia e intrattenimento?
AP: «Credo che sia stata la mia battaglia anche prima di entrare qui dentro ed è un lavoro che non finisce mai».

Ci sono stati dei cambiamenti, nell’arco di questi anni, nel suo modo di lavorare? È mutato il suo ruolo di regista?
AP: «No. C’è solo più consapevolezza in termini di mestiere e di padronanza nel modo di lavorare e dei mezzi a disposizione. In fondo lavoriamo senza avere quasi niente e questo rimane un teatro che non si fa in un teatro, un teatro fuori dal teatro. Per questo stiamo chiedendo da più di dieci anni un teatro, uno spazio coperto. Avere un teatro servirebbe anche a creare lavoro. È assurdo che l’istituzione ancora non riconosca questa realtà».