Buona la ‘prossima’

A Quarrata, nel basso pistoiese, Giovanni Lindo Ferretti mette a nudo la propria storia nello spettacolo di chiusura dell’ottimo cartellone del Teatro Nazionale, che in questa stagione ha già ospitato Moni Ovadia, Elio (de Le storie tese), Marco Baliani, Erri De Luca con Simone Gandolfo e Sara Cianfriglia, Margherita Hack e Ginevra Di Marco.

Giustamente definito da Michela di Michele più un evento che un vero e proprio recital teatrale, l’incontro con Giovanni Lindo Ferretti rientra in quelle forme di esperienza la cui riuscita è imprevedibile e indissolubilmente legata al feeling con il pubblico. Pubblico presente in sala, numeroso e anagraficamente variegato, ma- va detto – lacunoso di giovani e con la terza età a fare da padrone. Come sanno i “fedelissimi” e i ben informati (che non sempre coincidono), proprio l’assenza di dialogo con la platea è stata la spia di un “cattivo umore” e di una mancanza di empatia, annuncio di una serata, lunga e “sofferta”, ben diversa da quella svoltasi nella Chiesa di Sant’Antonio Abate a Tossicìa, e raccontataci dalla nostra Michela.

Sul percorso di Giovanni Lindo Ferretti è da tempo aperta una (inconciliabile) diatriba tra chi ne sostiene la fondamentale coerenza (relativa a un personale e legittimo atteggiamento di intima ricerca di quiete) e chi vi riconosce i tratti specifici del rinnegato (colui che per opportunismo sconfessa e tradisce i propri principi). Non essendo questa la sede per affrontare l’argomento ed evitando così ogni atteggiamento partigiano, se dalla serata risulta uscire intatto lo spessore artistico di uno tra i rappresentanti più importanti del punk-rock italiano degli ultimi 30 anni, l’organizzazione scenica ed esecutiva della recita è apparsa costituzionalmente debole e vittima di alcune fragilità di fondo – sia dal punto di vista della costruzione ideologica che di quella tecnica.

Il racconto risulta effettivamente intenso e ricco di suggestioni. Una vera e propria apologia del passato inteso come periodo ideale e storico scandito nel concreto dai lenti ritmi della natura ed emblematicamente fissati dai funerali, rito comunitario attraverso i quali la società salderebbe/salvaguarderebbe le individualità all’interno di un corpo solidale, oltre che declinato nell’esaltazione dei piccoli gesti di sangue e carne (su tutti la parentela, «da bambino volevo essere come mio padre, mio nonno»).

Quello di Giovanni Lindo Ferretti è un abbandono (vissuto e artistico) senza alcun rimpianto per le opportunità offerte da un progresso (l’illuministico disincanto dai valori assoluti, religiosi in primis). Pur dando il meglio di sé sul palco proprio nei momenti in cui intona le antiche e nuove, profane e canoniche, litanie, accompagnato eccezionalmente dal violino di Ezio Bonicelli, l’ex cantante (come lui stesso si definisce) ridicolizza come mera e stupida attesa dell’avvento di «uforobot» da parte dei «nativi digitali». Una battuta quest’ultima che, pur strappando facilmente le risate al pubblico, denota pochezza intellettuale. Sorprendente per chi, ad esempio, nel 1997 scriveva Unità Di Produzione, lucida e poetica analisi dei drammatici esiti del socialismo reale, anche perché mostra una sostanziale sottovalutazione e unilaterale comprensione dell’attuale periodo storico. Una dimensione assolutizzata da cui viene completamente espulsa ogni forma di alternativa culturale che, a titolo di esempio, potrebbe intendere la contemporaneità nel senso di apertura estensiva del mondo. A quella totalità di significati che non esaurisce la terra, ovvero l’orizzonte della vita che rimane sempre impossibile da de-finire, cui si accompagna il richiamo (assordante solo per chi lo rifiuta) alla responsabilità dell’umanità nei confronti di se stessa, la Gaia messa in guardia da ogni feticizzazione e da quegli atteggimenti sostanzialistici e naturalistici che hanno trattato il soggetto come cosa tra le cose. Quindi (anche) da quella Santa Romana Chiesa che, proclamando un vincitore nella weberiana lotta insanabile tra gli dèi (e i valori), definisce monoliticamente l’essere umano come creatura.

Mentre Bella gente d’Appennino dal punto di vista ideologico, proprio per la sua radicalità confessionale, sembra costituire – vista l’innegabile capacità linguistica ed evocativa di cui è padrone Giovanni Lindo Ferretti – una sfida più che una debolezza per un pubblico culturalmente smaliziato, sul versante prettamente tecnico-esecutivo risulta prestare il fianco ad alcune valutazioni pesantemente critiche. Nella spoglia scenografia del Teatro Nazionale, con una acustica non perfetta (purtroppo spesso riscontrabile nei “cinema-teatri”), Bella gente d’Appennino presenta, non nel migliore dei modi, crudamente quello che è: la testimonianza sincera e privata del percorso di una persona che ha dis-messo pubblicamente i panni del personaggio e, attraverso un percorso pascoliano, ha ri-scoperto, con e nelle piccole cose, il mondo. Senza, però, essere fanciullino, quindi con tutta l’amarezza e il disagio di una storia in cui – pur accettandola per come è stata – non si riconosce più, trovandovi comunque nuova serenità.
Uno spettacolo, fin troppo perentorio per essere la didascalia di valori e comportamenti di un singolo, eccessivamente lungo per reggersi sul ritmo e a tratti stucchevolmente autobiografico (pur alternando momenti altissimi, come quello dedicato al ricordo di Ezio Comparoni, che i più conoscono con lo pseudonimo di Silvio D’Arzo), statico e monotono per e nell’estensione delle parti recitate, del quale – riprendendo quanto scritto da Michela – la cui valutazione sembra dipendere in maniera eccessiva dal “coinvolgimento emotivo … dall’hic et nunc”.

Parafrasandone, questa volta, la recensione, la fortuna dello spettacolo, insomma, è proprio «il suo essere irripetibile».

Leggi la recensione di Bella gente d’Appennino di Michela di Michele

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Nazionale
via Montalbano 11 Quarrata (PT)
ore 21,15

Bella gente d’Appennino
recital per voce e violino
Giovanni Lindo Ferretti (voce), Ezio Bonicelli (violino)
(durata: un’ora e trenta minuti circa)