Shakespeare alla deriva

Una rilettura che, tutta votata a raccontare la violenza del mondo contemporaneo, stravolge e in parte snatura il dramma scespiriano.

Andato in scena allo Spazio Avirex Tertulliano, Calibano nella Tempesta rielabora l’ultimo dramma di Shakespeare traendo spunto dalla rilettura di Aimé Césaire, che eliminava alcuni importanti elementi dell’opera per tentarne un’attualizzazione in chiave marxista in linea con la controcultura della fine degli anni sessanta. Scompare il personaggio di Ferdinando e l’azione si riduce ad un confronto fra gli occupanti e gli occupati: Prospero e la figlia Miranda da un lato, Calibano ed Ariel dall’altro.

Rivisitare Shakespeare nel Novecento, come fece Aimé Césaire (cantore, insieme a Léopold Senghor, della négritude) con Une têmpete, è come mettere i baffi alla Gioconda: uno sberleffo, da un lato; la testimonianza della vitalità dell’opera citata, dall’altro. L’ultimo dramma scespiriano, ambientato sulla riva di un’isola in mezzo al mare, è permeato da un’atmosfera quieta e pacificata che si diffonde sui personaggi e sul paesaggio.

In questa tranquillità, si odono le voci soprannaturali che guidano le vicende umane. Gli uomini naufragano sulla magica riva e approdano su quella terra incognita per pentirsi ed espiare. In questo senso, è possibile accostare tale atmosfera purificata e mite con l’isola del Purgatorio immaginata da Dante nella seconda cantica: «il tremolar della marina», la freschezza della rugiada, le voci degli spiriti, infatti, sono aspetti che si ritrovano in ambedue i poemi e proprio il Prospero scespiriano potrebbe esser assimilato al Catone dantesco come figura di vecchio sapiente. La rielaborazione operata da Césaire nel 1969, da una prospettiva anticolonialista e marxista (erano gli anni delle Pantere nere e del Black power), opera significativi mutamenti rispetto al testo di partenza: in particolare, si concentra sullo scontro fra gli abitanti originari dell’isola, Ariele e Calibano, e i nuovi arrivati (o meglio, i conquistatori e usurpatori, come li intende l’autore), Prospero e la figlia Miranda. Césaire evidenzia inoltre il fatto che Calibano fosse il re dell’isola prima dell’arrivo di Prospero.

Si tratta, evidentemente, d’una trasparente metafora della colonizzazione, prima e seconda: gli europei sbarcano nel Nuovo mondo e rovesciano i regni che vi trovano, come fece per primo Cortés con l’impero azteco di Montezuma. Così, Prospero, nella lettura, o meglio nella rilettura di Césaire, rovescia il regno di Calibano e impone sull’isola il proprio dominio. Se il re spodestato rifiuta ogni collaborazione con gli occupanti e si rammarica di non poter sfidare l’usurpatore poiché consapevole della propria debolezza, mentre Ariele sceglie di non provocare i nuovi signori limitandosi a chiedere a Prospero di liberarla. Nel diverso atteggiamento dei due personaggio si legge la differente disposizione delle ex colonie verso i paesi che fino a qualche anno prima le dominavano.

Anche la chiusa delle due opere differisce alquanto: se nell’originale scespiriano Prospero lascia l’isola insieme alla figlia, ai naufraghi Antonio e a Ferdinando, e Calibano (che rappresenta qui l’elemento comico del dramma) rimane sull’isola insieme al dispensiere Stefano e al buffone Trinculo, nella pièce di Césaire Prospero concede la libertà ad Ariele, ma conserva il controllo sull’isola e su Calibano. Lo spostamento dell’asse narrativo e nella definizione dei personaggi è dunque notevole e lo spettacolo estremizza la lettura novecentesca eliminando gli elementi magici e fantastici che tanta importanza giocano nel dramma scespiriano.

Calibano non assolve più alla funzione di alleggerire gli aspetti più drammatici del testo di partenza, dov’era confinato al ruolo di spalla, ma assurge qui ad antagonista di Prospero e a rappresentante degli ultimi e degli esclusi. Il paesaggio rasserenante menzionato in apertura svanisce a lasciare spazio a una terra desolata colpita da una guerra anch’essa novecentesca (come sembrano chiaramente indicare gli abiti e le divise militari indossate dai personaggi e le immagini dei bombardamenti proiettate alle loro spalle), di cui si vedono infliggere agli abitanti sofferenze le cui ragioni non sanno spiegarsi effettuando una trasparente allusione, com’è facile comprendere, allo sfruttamento economico dei paesi del terzo mondo ad opera dell’Occidente e dei conflitti che quest’ultimo orchestra per i propri interessi in quelle aree.

Lo spettacolo orchestra un confronto fra Prospero e Calibano, da un lato, ognuno incapace di comprendere le rispettive motivazioni e fra Miranda e Ariel dall’altro, delle quali mostra la sincera vocazione a pacificare i conflitti. Il maschile e il femminile vengono dunque a costituire due poli opposti e complementari: l’uno votato allo scontro, l’altro alla sua risoluzione: Marte che suscita le passioni e Venere che le placa. Non giova comunque al buon esito dell’opera una recitazione manierata ed enfatica, priva di spontaneità e di naturalezza. Appare non del tutto contestualizzata, inoltre, la citazione dal Grande dittatore di Chaplin, in particolare dalla sua scena più nota, che mostra un Hynkel vanesio ed infantile giocare col mappamondo. L’impostazione complessiva dello spettacolo che estremizza, come detto, la rilettura già molto libera di Césaire, segnata dalla temperie culturale in cui è stata concepita e realizzata, snatura dalle fondamenta il dramma scespiriano, caratterizzato come visto dall’elemento fantastico e dalla dolcezza di un’ambientazione che potremmo ben definire purgatoriale.

Nello spettacolo, invece, nessuna espiazione riscatta i personaggi e l’ambiente dove questi si muovono è quanto mai arido e sterile e, al contrario di quello tratteggiato da Shakespeare, inospitale ed ostile verso i suoi abitanti. Così, però, il senso profondo della fonte viene meno e l’ordine e l’armonia auspicati dall’autore, la musica d’Ariele (alla quale Eliot aveva dedicato, dopo la conversione, gli Ariel poems) vengono coperti dal rumore delle esplosioni e cancellati da una messinscena che, per voler parlare dei travagli di questo tempo, tradisce il testo di partenza e finisce col suonare insincera e a tratti enfatica, comunque non prossima alla quiete che avvolgeva l’isola fatata scespiriana.

Lo spettacolo è continua
Spazio Avirex Tertulliano

via Tertulliano 70 Milano
dal 16 al 27 novembre 2017

Calibano nella Tempesta
da La Tempesta di William Shakespeare
regia di Giuseppe Scordio
scritto da Gianfilippo Maria Falsina
con Giuseppe Scordio e con Michelangiola Barbieri Torriani, Valeria Rossi e Mattia Maffezzoli
scenografia e costumi di Francesca Cionti
assistente scenografa Costanza Gorick
produzione Spazio Avirex Tertulliano