Ritratti d’Autore

Regista e autrice, sivigliana di nascita e milanese d’adozione, Carolina De La Calle Casanova è una delle voci più apprezzate della nuova drammaturgia italiana.

Numerosi i premi ottenuti con la Compagnia BabyGang, fondata nel 2002 assieme a Federico Bonaconza e Valentina Scuderi: un percorso che trova il suo centro soprattutto nella drammaturgia e nella scrittura scenica e che testimonia una notevole sensibilità alle urgenze contemporanee. Dal 2006 collaboratrice di Paolo Rossi come autrice e attrice, Carolina De La Calle Casanova macina regie, testi teatrali e non e conduce laboratori drammaturgici. In occasione dello spettacolo da lei scritto e diretto Noi non siamo qui, in scena al Teatro ATIR Ringhiera, ci facciamo raccontare obiettivi e criteri che ne segnano lo sviluppo testuale e scenico.

 
Noi non siamo qui è uno spettacolo che molto ha a che fare con la finzione, l’autoinganno. Uno dei riferimenti letterari e filosofici che negli ultimi anni l’hanno ispirata è Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale di Andrea Tagliapietra. Quanto ha inciso questo testo sulla drammaturgia dello spettacolo?
Carolina De La Calle Casanova: «Questo è effettivamente uno dei punti di partenza anche dei laboratori drammaturgici che teniamo (Laboratorio di Drammaturgia AttivaRaccontami una bugia, nato nel 2010, è una fucina viva che vuole approfondire le tecniche, i trucchi, i metodi, gli stili e i generi della scrittura scenica, n.d.r.): la bugia è prima di tutto un meccanismo umano ed è alla base di tutte le forme d’arte: un film, una scultura, un dipinto, qualsiasi opera artistica si serve della finzione e del rapporto che essa ha con il reale, al di là dell’interpretazione più o meno verista. Il pubblico deve credere a ciò che vede; ne consegue che la difficoltà sta nell’imparare a mentire bene e questo è il primo principio degli attori, la cui bugia deve essere costruita tanto bene da non riuscire più a distinguerla dal reale».

Il libro di Andrea Tagliapietra ci parla della funzione della bugia a livello antropologico, politico e sociale, fino ad arrivare alla sua dimensione psicologica e quale canale attraverso cui comunicare. Non solo nell’arte, quindi, ma in tanti altri settori della vita. A questo proposito una riflessione – che emerge dal vostro lavoro – è che facendo una somma delle nostre esperienze vissute e immaginate forse scopriamo che viviamo tanto di finzione quanto di realtà.
C. De La C. C.: «Mia nonna mi diceva sempre: “sono meglio le carezze sognate di quelle vissute”. E aveva ragione. Quando scrivi e quando fai regia, prima di verificare un’idea, la immagini a lungo; solo quando arrivi in sala, tenti di attuarla concretamente».

Come è attuato il processo creativo della scrittura scenica? L’idea che dà il titolo allo spettacolo era presenta fin dalla scelta dei testi di Beckett su cui avete basato le improvvisazioni? E quale rapporto ha la tematica scelta con la contemporaneità, data anche la sensibilità politica che ha contraddistinto i suoi precedenti lavori – compresa la collaborazione con Paolo Rossi?
C. De La C. C.: «L’idea di Noi non siamo qui è nata mentre scrivevo testi, quindi prima di “entrare in sala” e confrontarmi con la scena. Capivo con sofferenza che, a differenza dei miei lavori passati, questi materiali non appartenevano a una storia unitaria. Parlavano della condizione del non vivere mai il presente, nel senso politico e sociale di uno scollamento forte tra ciò che vivevo e ciò che vivevano gli altri: momenti di forte eccezionalità da cui sono nati canovacci molto differenti tra loro e rispetto anche a quelli prodotti con Paolo Rossi o a quelli nati con la Compagnia Babygang. Materiali testuali tra loro diversi, tanto che, una volta entrata in sala per iniziare il lavoro con gli attori, ho chiesto: “datemi dieci minuti di fiducia”. Non si trattava di analizzare il testo e i personaggi ma di lasciarsi andare alle parole, in un ping pong continuo tra le tematiche di partenza e il presente scenico. Ed è per tale dinamica che la drammaturgia si è sviluppata, costruita sul continuo lavoro con gli attori. Io privilegio la parola detta rispetto a quella scritta, infatti non ho copioni: sono la Siae e gli attori ad averne uno, non io».

Questo significa che il testo può cambiare sensibilmente da rappresentazione a rappresentazione?
C. De La C. C.: «Ci sono sicuramente delle regole fisse, una linea guida che è e deve essere la stessa, ma, durante ogni replica, c’è uno spazio di relativa libertà dal testo scritto, che costringe gli attori a stare nel qui e ora. Mi è sembrato giusto che, proprio parlando del “non essere qui”, dovesse esistere un confronto scenico con il presente: era la stessa tematica che lo esigeva».

Un elemento forte del vostro lavoro è costituito dalla musica. Gli attori cantano in scena e un musicista suona dal vivo, in una sorta di composizione in tempo reale che sembra seguire le stesse modalità di quella attorale. Quanto e come la musica ha inciso sul processo creativo?
C. De La C. C.: «Nei nostri lavori il rapporto con i musicisti è sempre stato fondamentale: sempre lavoriamo sulla musica composta a ridosso della scena. Ciò che cambia da spettacolo a spettacolo è il rapporto musica-scena, ossia se la musica debba o meno essere eseguita in tempo reale, seguendo ciò che accade sul palco, oppure registrata. Anche per la musica, vale lo stesso procedimento creativo dell’attore: esiste una linea guida, ma all’interno ci sono passaggi che prevedono una certa libertà in cui l’accompagnamento può e deve variare. Per esempio, la scena del bidone. In ogni caso, la musica è per me un elemento fondante del lavoro: mentre immagino, mentre scrivo, tengo sempre le cuffie».

In un procedimento che prevede uno scambio tanto vitale con l’improvvisazione, qual è stato il suo rapporto con gli attori? In quali termini il loro ruolo può definirsi autorale?
C. De La C. C.: «Alcuni tra gli attori con cui lavoro sono conoscenze decennali, come Valentina Scuderi, che ha fondato con me la Compagnia Babygang. Quando scelgo nuovi attori, lo faccio a seconda della loro capacità autoriale e non tanto in relazione alle loro capacità acquisite. L’obiettivo è comunque creare un nucleo stabile di attori, con cui meglio sviluppare le regole della scrittura scenica che in Italia, nonostante sia diffusa come pratica, non ha una vera e propria scuola. Fenomeno, questo, che conduce a una sorta di gap rispetto alla preparazione degli attori, abituati alla classica analisi del testo e dei personaggi secondo una metodologia stanislavskiana o brechtiana. In ogni caso, esistono attori con un’innata capacità autorale che tende comunque a un obiettivo comune, rispettando le indicazioni date. Nel caso di Noi non siamo qui, gli attori sono incisivi al 100%. La pappa non è mai pronta, non ci sono mai indicazioni precise e gli attori sono messi sempre in una condizione di urgenza. Un insegnamento che devo all’esperienza con Paolo Rossi, in cui talvolta c’erano solo tre o quattro ore per preparare una rappresentazione e si lavorava sempre in “sopravvivenza”, per risolvere e non semplicemente per dare il proprio contributo. Questo processo richiede da parte degli attori una grande generosità poiché accade spesso che tagli intere parti o quantomeno che le cambi drasticamente. Essere pronti all’urgenza è uno delle capacità in assoluto più importanti per un attore».