Ritratti d’autore

Teatro Akropolis è una realtà viva e vitale del territorio genovese, un crogiuolo di iniziative culturali che nasce nel 2001 sotto la direzione artistica di Clemente Tafuri e David Beronio. Persinsala li ha incontrati recentemente, durante la rassegna teatrale under 35, Intransito. Un’occasione per raccontare le tante iniziative che animano il loro spazio a Sestri Ponente, ma anche la loro personalissima ricerca che va alle radici della teatralità, fino a spingersi al confine «fra il mondo della Grecia arcaica e l’oriente».

David Beronio e Clemente Tafuri
tmp_6945-DavidBeronioDirettoreTeatroAkropolis-1489093971 tmp_6945-1 - clementeTAFURI - scrittore e direttore artistico di Teatro Akropolis1399927972

Teatro Akropolis si muove su più fronti: editoria, critica, produzione, residenze, organizzazioni di rassegne e festival. Una pluralità di attività fino a che punto complementari? È necessario oggi proporsi in vari settori o questa scelta vi è propria per ragioni precise?
Clemente Tafuri e David Beronio
: «Queste attività sono in realtà espressione di un unico progetto che parte da premesse strettamente poetiche e si declina nei diversi ambiti che tu hai citato. Ovviamente ognuno di questi aspetti cresce e si confronta nello sviluppo di un percorso pubblico. Le produzioni sono il frutto di quella ricerca che contamina e nutre il senso di ogni attività svolta, pensa ad esempio a Morte di Zarathustra e all’indagine condotta su Nietzsche, il coro tragico e l’origine del teatro. Avere artisti in residenza significa invece creare l’opportunità per un lavoro sui processi creativi, poter avviare cioè riflessioni comuni e una condivisione di temi e problemi con gli artisti ospiti. Una residenza dovrebbe, almeno secondo noi, consentire innanzitutto un incontro e un confronto sul piano intellettuale prima ancora che su quello artistico e finalizzato alla produzione.

Le rassegne e il festival sono l’occasione per avvicinare il più possibile il pubblico a quelle problematiche che sono alla base della nostra ricerca e riflessione, anche, naturalmente, nel confronto con il lavoro di altri artisti. Testimonianze ricerca azioni prevede, tra l’altro, una parte significativa dedicata a convegni e seminari proprio per proseguire il cammino in un ambito specialistico e non solo. Il versante editoriale diventa quindi un ulteriore piano di approfondimento che va oltre gli stretti limiti temporali di un singolo evento, offrendo dei materiali preziosi per la consultazione e lo studio, e comunque lasciando una testimonianza della ricerca condotta fino a quel momento non solo da noi, ma da tutti gli artisti che passano a Teatro Akropolis. La complementarità non è nella natura di queste attività, ma nel modo in cui si lavora per realizzarle e, quando si riesce, nella via che si trova per metterle in pratica».

Siete giunti alla sesta edizione del Festival Testimonianze ricerca azione, che travalica i confini nazionali riunendo artisti di vari Paesi. Quest’anno vi è sembrato che esistano stilemi, linguaggi, obiettivi di ricerca, metodi espressivi comuni tra i vari intervenuti? E, in caso positivo, quali vi hanno colpito maggiormente?
C. T. e D. B.
: «Come tutte le espressioni artistiche, il teatro risente di mode, contaminazioni di altri linguaggi, suddivisioni in generi e scuole, e così via. Questo tende, in molte occasioni, a uniformare gli obiettivi di ricerca e i punti di riferimento come se, all’improvviso, molti riconoscessero come urgenti ed essenziali i medesimi temi. A questo si aggiunge un ulteriore rischio di omologazione, quello del gusto e dei linguaggi espressivi. Esistono però molti gruppi o singoli artisti che riescono a dare interpretazioni autoriali e originali a queste tendenze, e a mantenere un’indipendenza e un’autonomia che rendono i loro percorsi e i loro lavori interessanti se non essenziali per una riflessione intorno al teatro. In generale, quindi, ci colpisce sempre l’intransigenza e la radicalità della poetica che sta alla base di alcuni dei lavori che ci vengono proposti, o che ci capita di vedere. Ci chiediamo, di fronte a un’opera, quanto l’artista si sia onestamente interrogato sui fondamentali della propria arte. È una domanda che dovrebbe essere retorica, inutile, ma spesso si rivela quanto mai opportuna».

Siete anche tra gli organizzatori della rassegna Tegras, rivolta al teatro educazione per gli studenti. Non avete mai pensato di proporre gli spettacoli per ragazzi anche nel corso della Stagione teatrale?
C. T. e D. B.: «Finora il nostro intervento nel mondo della scuola ha riguardato le attività della rassegna Tegras, con interventi di formazione e consulenza e affiancamento ai docenti e a coloro che all’interno delle scuole gestiscono le attività teatrali. Quest’anno stiamo immaginando di inserire nella programmazione anche momenti dedicati ai giovanissimi, avendo ben presente che, però, sul territorio c’è già un’ampia programmazione di spettacoli per ragazzi offerta da altri teatri».

Si è appena conclusa la rassegna Intransito. Quest’anno sono stati selezionati sei spettacoli di Compagnie under 35 su un’ottantina di proposte, provenienti da tutta Italia. Come valutate questa voglia di fare teatro nelle nuove generazioni?
C. T. e D. B.: «Il teatro rimane una esperienza creativa vitale, un modo per affermare qualcosa di urgente rimanendo al di fuori della virtualità. Per fortuna qualcuno sente ancora questo bisogno. Per ora almeno».

Come considerate l’importanza assunta dal reality quale mezzo per mettere in parodia vizi e storture di questa società, visto che è stato inserito nella struttura drammaturgica di due tra i sei spettacoli proposti?
C. T. e D. B.: «Il problema non è forse nell’aver scelto questa formula per modulare una drammaturgia. Se una cosa ispira, o meno, un autore questo è un problema innanzitutto suo, una sua responsabilità che poi sarà condivisa o meno da chi assisterà al lavoro. Il vero problema è quello di effettuare una trasposizione del linguaggio televisivo sul piano teatrale, e questo avviene troppo spesso a prescindere dai temi degli spettacoli. Lo si vede nel tipo di recitazione, nel modo di gestire i tempi della scena, nell’estetica, nei tempi comici. E tutto ciò indipendentemente dalla maggiore o minore adesione a un modulo televisivo come quello del reality».

In collaborazione con l’Università di Genova e con Teatro e critica avete fondato una redazione specializzata in critica teatrale, gestita da universitari. In un momento di crisi generale del ruolo del critico e di j’accuse contro il giornalismo web che, secondo alcuni, sarebbe un esercizio amatoriale che tende a confondere con l’eccessiva offerta, come mai avete deciso di puntare su questo settore?
C. T. e D. B.: «L’operazione, che è stata condotta per favorire la nascita di una redazione che si occupasse di critica teatrale, ha risposto a una precisa esigenza del nostro territorio. Ci sono pochi critici, per lo più addetti a seguire la scena più tradizionale; la stampa è in una crisi pressoché irreversibile e neppure il web esprimeva iniziative in grado di offrire uno sguardo, più o meno competente, su quanto passava nei teatri genovesi. Ma il problema anche qui, forse, è da rintracciare altrove. Sono sempre più frequenti i convegni e le occasioni di riflessione intorno al ruolo della critica, di recente al Funaro Giacché ha curato Il teatro della critica, che ha messo in evidenza molti degli snodi più problematici della questione. Al di là dell’autorevolezza legata alla testata su cui si scrive, la questione fondamentale oggi è quella della necessità di un recupero della figura dell’intellettuale, che sappia frequentare in tutta la complessità necessaria gli elementi del processo artistico che conducono all’opera. Tanto più che le recensioni agli spettacoli sono per lo più lette dagli addetti ai lavori e non certo decisive per portare pubblico in sala. La critica dovrebbe assumersi una nuova responsabilità, prendendo dove è il caso le distanze da una logica binaria di approvazione e disapprovazione e non replicando stanchi moduli di scrittura».

Cosa pensate della figura del critico residente a teatro?
C. T. e D. B.: «Per quanto appena detto, chiamare un critico a un confronto diretto con i processi creativi, l’ispirazione e i temi della ricerca è una pratica che offre grandi possibilità sia agli artisti che ai critici stessi. In questo caso la statura intellettuale del critico diventa una questione dirimente. Si tratta di entrare negli aspetti fondativi dell’ispirazione e dell’immaginario che a essa fa capo, si tratta di avere una grande capacità di lettura di una strategia creativa. Non è quindi un’esperienza adatta a chiunque».

A livello editoriale avete una casa editrice, AkropolisLibri, e vi state altresì occupando della pubblicazione delle opere inedite di Alessandro Fersen – regista, drammaturgo e interprete di grande spessore. Da quali esigenze nasce questo impegno e a quali lettori vi rivolgete? Pensate che, oggi, il volume in carta stampata abbia ancora una sua necessità?
C. T. e D. B.: «Il lavoro su Fersen risponde a un’esigenza profondamente legata ai temi di cui ci occupiamo, temi che Fersen stesso aveva affrontato con una straordinaria lucidità. La pubblicazione dei suoi testi inediti, che ci è stata affidata dalla Fondazione Alessandro Fersen, è un’occasione per conoscere il pensiero di una figura spesso identificata esclusivamente con il suo lavoro sulla scena. Fersen è stato tra i maggiori teorici e studiosi del Novecento del teatro e delle sue origini, e le sue opere stanno ora suscitando un grande interesse sia presso gli studiosi che presso gli artisti. Stampare libri, possibilmente bei libri, è un atto di civiltà».

Teatro Akropolis accoglie ogni anno una decina di Compagnie con il sistema delle residenze. Come mai questa scelta di apertura che, molto praticata all’estero, è ancora argomento di dibattitto in Italia?
C. T. e D. B.: «Il dibattito sulle residenze è vivo da molti anni. Ci sono esperienze in Italia di grande efficacia e prestigio che hanno sostenuto il lavoro di artisti e gruppi indipendenti. È pur vero che molto è ancora da definire, e che è molto complesso stabilire una relazione costruttiva e utile tra le esigenze degli artisti e la burocrazia ministeriale, tra le esigenze delle compagnie e le disponibilità e possibilità dei teatri. Si tratta di un processo che si sta definendo sempre più in questi anni e rappresenta un’occasione soprattutto per lo svecchiamento del sistema teatrale italiano. Quello delle residenze è solo un aspetto di come la gestione della cultura in Italia si rifaccia a modelli ormai superati».

Siete voi a scegliere le Compagnie in residenza e, se sì, su quali basi?
C. T. e D. B.: «Siamo noi a scegliere le compagnie, cercando di individuare i lavori che hanno una maggiore possibilità di essere esplorati, lavori che si prestano a contribuire al dibattito e ai temi di studio che ogni anno costituiscono la parte più vitale di Testimonianze ricerca azioni».

Le ultime domande riguardano il lavoro della vostra Compagnia nell’ambito della produzione teatrale. Voi partite dallo studio del coro tragico e dall’origine del teatro occidentale. Definite la vostra ricerca “sul lavoro dell’attore in chiave fisico-espressiva”. Sulla carta sembrerebbe, quindi, un tipo di ricerca che si potrebbe anche ricollegare a diversi stilemi di forme teatrali orientali. Esistono punti di convergenza tra questi due universi nel vostro lavoro?
C. T. e D. B.: «Esistono alcuni punti nodali in cui si imbatte chiunque decida di intraprendere un percorso artistico attraverso il teatro. Questi temi si possono affrontare ma si possono anche ignorare, si possono scavalcare come un ostacolo di poco conto continuando a lavorare come se non esistessero. Sono i temi intorno ai quali si è sviluppata tutta la riflessione dei maestri del Novecento, e rappresentano questioni che sono tuttora irrisolte. Essi sono connaturati all’atto stesso del teatrare e, quindi, non si limitano alle esperienze artistiche occidentali ma riguardano tutti quelli che Fersen chiama i teatri d’origine, tra i quali ci sono diverse forme di teatro orientale. In questo senso si può individuare la convergenza di cui parli, fra il mondo della Grecia arcaica e l’oriente».

Come mai, nel mare magnum del teatro di parola italiano, avete fatto una scelta così radicale?
C. T. e D. B.: «La parola in teatro è un elemento portante che però, molto spesso, viene utilizzato senza valutarne la problematicità, come se non comportasse delle criticità intrinseche alla sua natura. Come se l’unico problema della parola fosse di ordine estetico, fosse di trovarle un’efficacia retorica. La parola è il mezzo attraverso il quale la letteratura fa il suo ingresso sulla scena, è lo strumento attraverso il quale l’azione viene concettualizzata e offerta a chi assiste come narrazione di una storia. Il nostro studio si è focalizzato innanzitutto sulla rappresentatività dell’azione indipendentemente dalla parola, che comunque non è assente dal nostro lavoro. La radicalità del percorso che proponiamo è frutto del tentativo di individuare un grado rappresentativo preletterario, e con esso stabilire un confronto che sia chiaro per chi assiste al nostro lavoro».