Un debutto e una anteprima nazionale, uno studio del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e lo spettacolo fresco vincitore del Premio di Produzione E45 Napoli Fringe Festival, inaugurano la prima giornata di prosa del Festival Collinarea 2013.

Nel piccolo ma intenso teatro di Lari, apre le danze, inaugurando la programmazione di prosa del festival, l’anteprima nazionale de Il Guaritore di Michele Santeramo per regia di Leo Muscato, un testo coprodotto dalla collaborazione tra Teatro Minimo e Fondazione Pontedera Teatro e vincitore del 51° Premio Riccione per il Teatro.

Figura complicata quella del guaritore, ciarlatano nell’immaginario (perché non medico), mago per gli adepti (perché capace di risolvere ogni problema «in un colpo solo»), inconcludente per il fratello (che mal sopporta la sua prepotenza).
Complicata, a sua volta, la storia, che risulta incastrata a più livelli. Almeno tre: il primo, quello della fabula, che si svolge per lo più a livello verbale e sviscera una trama prevedibile e prolissa solo perché omogenea all’identità terrona (barese) degli interpreti (forse, a tratti eccessivamente urlata e nervosa). Il secondo, quello concettuale, legato alla necessità (o meno) della speranza, vera protagonista dei dialoghi tra i due fratelli («non bisogna dare false speranze, altrimenti si genera la delusione», ma «se si elimina la speranza, allora si muore»). Infine, quello della forma teatrale, con alcune soluzioni drammaturgiche particolarmente efficaci, come nel caso dello sbalorditivo momento alla Godot dell’ingresso dei due coniugi. Un incontro caratterizzato dalla reiterazione di dialoghi interrotti, talmente privi di senso e di scopo da risultare, paradossalmente, illuminanti rispetto all’assurdità che sta andando in scena (il pugile: «Devo dire qualcosa? Tocca a me?»; il guaritore: «Se vuoi, puoi parlare»; il pugile: «Allora preferisco di no»).
Una assurdità intrinseca a una consapevolezza non pienamente razionalizzabile ed esemplarmente restituita sul palco dall’alterco tra i due giovani sposi, la coppia composta dall’ottimo Vittorio Continelli (ottimo nel mostrarsi idiota e in balia di riflessi condizionati che ne determinano le re-azioni di marito che nasconde un terribile segreto e di boxeur che sa benissimo che «quando prendevo pugni che facevano male, non ero poi così contento») e da Paola Fresa (una moglie nostalgica di un passato dove «almeno c’era la vita», se non proprio la felicità, ed etimologicamente ninfomane perché alla ricerca di qualcuno, chiunque, in grado di darle quello che il compagno non ormai non può più garantirle, ovvero la maternità intesa come continuità e del lasciare qualcosa del sé).

Un efficace affresco tragicomico quello messo in mostra dall’adattamento di Muscato, a cui contribuiscono la credibile scelta linguistica di un non-italiano, l’impostazione meta-teatrale di una storia che si racconta per bocca del suo stesso protagonista («questa volta c’entriamo noi due; e quella stronza», dirà infatti il guaritore riferendosi a quella madre che, morendo, gli aveva lasciato la responsabilità di vivere da solo) e una drammaturgia alla continua e straziante ricerca di equilibrio. Un groviglio esistenziale, quest’ultimo, splendidamente rappresentato dal fascinoso e spigoloso personaggio di Simonetta Damato che, nel disperato tentativo di difendersi dall’eccessivo peso di una gravidanza non desiderata, vedremo camminare sul ciglio di una panca che costituisce il principale oggetto del semplice impianto scenografico

A seguire, all’aperto – presso il Castello di Lari – è andato in mostra lo studio del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, momento di “ricerca e di pratica […] sull’utilizzo e l’esplorazione dei canti del sud degli Stati Uniti”. Fedele a una certa idea povera di teatro, lo studio assume una connotazione molto fisica, con gli attori che cantano in inglese, suonano semplici strumenti (un campanellino, un bastone, un pentolino, il battere delle mani) e danzano all’interno di un immaginario ambiente costruito dagli stessi spettatori. L’improvvisazione acquista una valenza squisitamente tecnica di variazione libera di un’idea di fondo strutturata ma non rigida e il risultato è, ovviamente, di altissimo livello. La costruzione di uno spazio di comunanza e partecipazione di gaio misticismo tra attori e astanti può dirsi compiuta e lasciare spazio alle successive fasi del progetto, merito – oltre che di una grande padronanza e consapevolezza dello “strumento” teatrale e di emozionanti melodie, intonate in contrappunto tra solista e coro – anche della scelta di interpreti sconvolgenti per bellezza d’aspetto e gioia d’animo.

Sempre al Castello, ma all’interno, il Festival prosegue – ricordiamo con la felice formula di un biglietto unico per l’intera serata – con la Conferenza tragicheffimera sui concetti ingannevoli dell’arte, un monologo di Cristiana Minasi aperto da un’esilarante introduzione oltre la quarta parere, ottimo escamotage per rompere il ghiaccio. Caratterizzata da un incedere quasi cabarettistico, unico neo dello drammaturgia, la performance si rivela comunque divertente, oltre che in grado di proporre spunti metateatrali («Non c’è storia in questa storia. Ed è questa la storia») ed esistenziali, attraverso l’invito alla riflessione sulla dialettica tra certezza (metaforicamente resa da una «sedia» che – però – «è sempre occupata») e possibilità (il volo sulle ali della fantasia e della vita che solo il teatro può offrire).

La prima giornata di prosa si chiude, lasciando il Castello per tornare in Teatro, con l’ultimo lavoro della compagnia Scenica Frammenti, Il Sogno del Marinaio, tratto dal dramma Il Marinaio – che il poeta portoghese Fernando Pessoa, celebre anche per l’enorme quantità di eteronimi, compose in una sola notte. Come sempre quando si tratta della storica compagnia residente a Lari, a colpire è l’impostazione scenografica: un cerchio di sabbia disegnato e costruito dalle stesse interpreti nel corso dell’incedere narrativo dei dialoghi con al centro il soggetto della loro veglia, un’invisibile amica morta, rappresentata da quelli che scopriremo essere tre veli (due neri e uno bianco, la prevalenza dei toni scuri non è un dettaglio) coperti anch’essi di sabbia. Un dialogo alternato a tre voci di donne, la cui diversità di carattere è resa in relazione alla tonalità degli abiti: la giovane ragazza, allegra e ancora sognante, vestita di bianco; la più anziana, saggia e cinica, di nero; quella “di mezzo”, disillusa ma ancora in grado di raccontare i propri sogni (tra i quali, quello del naufragio di un vecchio marinaio), adornata da entrambi i colori (bianco e nero). Aspettando che arrivi il giorno, le tre sorelle iniziano così i propri racconti sulla tematica del mare (richiamo rafforzato dalla trama a rete dei veli e dei vestiti), simbolo di un percorso esistenziale che dal viaggio/vita, attraverso il naufragio/crisi, porta al ritorno/pienezza (purtroppo irraggiungibile). Una figura concettuale, quella del viaggio, in cui si realizza felicemente la sintesi dei due poli attorno ai quali ruota la metaforica ricerca sulla memoria e la definizione – tra sogno e realtà, tra necessità e arbitrio – del proprio sé («Le parole che dico sono uscite da me e non sono più mie, sono passate») che, tradizionalmente, sta al centro delle produzioni di Scenica Frammenti.

Il risultato è positivo, la narrazione – splendidamente adattata – non arranca mai e, grazie a una sapiente scelta testuale, raggiunge l’obiettivo più difficile, ovvero una notevole efficacia dal punto di vista della costruzione “fantastica” delle “immagini” raccontate. Tuttavia, il giudizio globale rimane sospeso. Causa di alcune incompiutezze, purtroppo essenziali, che hanno, di conseguenza, indebolito la messa in scena nel suo complesso, quali alcune geometrie e tempistiche non esenti da sbavature e, soprattutto, l’utilizzo di luci inaspettatamente e inopportunamente troppo forti e accese per sostenere la dimensione onirica che avrebbe dovuto fare da sfondo visivo al Sogno – pure  dichiarata nelle note di regia. Criticità urgenti da risolvere per uno spettacolo dalle potenzialità, già allo stato attuale, non indifferenti.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Collinarea Festival 2013
Teatro di Lari
sabato 20 luglio 2013, ore 19.15
produzione Teatro Minimo e Fondazione Pontedera Teatro
coproduzione Riccione Teatro, Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria
in collaborazione con Bollenti Spiriti – Regione Puglia, Assessorato alle Politiche Giovanili e alla Cittadinanza Sociale, Assessorato alla cultura del Comune di Bitonto
Il Guaritore
di Michele Santeramo
regia Leo Muscato
con (in ordine alfabetico) Vittorio Continelli, Simonetta Damato, Gianluca Delle Fontane, Paola Fresa e Michele Sinisi
produzione e organizzazione Luca Marengo per Teatro Minimo, Angela Colucci per Fondazione Pontedera Teatro

segreteria organizzativa Lidia Bucci
Castello di Lari
sabato 20 luglio 2013, ore 20.30
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards
Open Program
Una dedica in azione
con Mario Biagini, Davide Curzio, Robin Gentien, Agnieszka Kazimierska, Felicita Marcelli, Ophelie Maxo, Graziele Sena e Suellen Serrat
diretto da Mario Biagini
(studio)

Castello di Lari
sabato 20 luglio 2013, ore 21.15
Carullo – Minasi
Conferenza tragicheffimera sui concetti ingannevoli dell’arte
libera interpretazione da La situazione dell’artista di T. Kantor, L’arte del Teatro di G. Craig  e  Ione di Platone
Spettacolo Vincitore del Premio  E45 Napoli Fringe Festival 2013
scritto, diretto ed interpretato da Cristiana Minasi
coregia Domenico Cucinotta
produzione Carullo-Minasi
coproduzione Fondazione Campania dei Festival e E45 Napoli Fringe Festival

Teatro di Lari
sabato 20 luglio 2013, ore 22.15
Scenica Frammenti
Il Sogno del Marinaio
da Il Marinaio di Fernando Pessoa
con Iris Barone, Alice Giulia di Tullio e Giulia Vagelli
regia Loris Seghizzi
collaborazione alla regia Gabriele Benucci
costumi Angela Breviario