Ritratti d’Autore

Corrado D’Elia è un attore e regista di nuova generazione, sia per il modo in cui intende il teatro sia anagraficamente – e questo è un merito in un’Italia gerontofila, dove politici, capitani d’industria, giornalisti e filosofi appartengono come minimo alla generazione dei padri, più spesso a quella dei nonni.

Proprio per questo il suo teatro, il Libero, è stato negli ultimi anni uno spazio dove il pubblico ha potuto riconoscersi nei temi e nel linguaggio. Oggi, dopo la chiusura di questa sala – che speriamo sia solo momentanea – è proprio il suo direttore artistico e regista, a raccontarci cosa è successo, ma anche a parlarci del suo ultimo spettacolo, Notti Bianche – in questi giorni al Litta di Milano – dei prossimi impegni, di politica, crisi economica e libertà.

Partiamo dal suo ultimo spettacolo, Notti Bianche. Perché ha sentito l’esigenza di proporre un testo giovanile di Dostoevskij?
Corrado D’Elia: «Rileggendo il libro, dopo una serie di viaggi fatti nell’Est Europa, mi ha colpito, da una parte, la dimensione del tempo: lento, sospeso, quasi inesistente e, dall’altra, quella del sogno: una componente essenziale della nostra vita contemporanea proprio perché ci manca. Noi pensiamo al sogno come fuga, esclusione della vita reale; mentre, al contrario, a me piaceva l’idea di interpretare questa dimensione come una parte fondamentale della nostra esistenza».

Come è riuscito a trasformare il romanzo in uno spettacolo teatrale?
C. D’E.: «Da qualche anno mi piace lavorare con gli attori, lasciando loro la libertà di scegliere le parole che pronunceranno in scena. Gli interpreti, in questo modo, non hanno scuse: hanno scelto cosa dire ed è conseguente che sentano le parole. In questo modo si supera lo scollamento tra il testo scritto, da un altro, e gli attori che devono impararlo a memoria e recitarlo. Io, come regista, sono comunque sempre presente e ho la responsabilità ultima: incarno sia la figura di regista sia quella di dramaturg. Per questo spettacolo, in particolare, il nostro lavoro è stato molto difficile perché abbiamo dovuto tagliare espressioni bellissime. Notti Bianche inizia con “Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che si possono capire solo quando si è giovani”. Una frase fondamentale eppure, a mano a mano che procedeva il lavoro, ci accorgevamo che il testo scenico assumeva una forma propria, e che noi dovevamo essere così coraggiosi da escludere espressioni come questa, al servizio dell’idea di spettacolo che si stava delineando».

Ho trovato il meccanismo di Notti Bianche molto simile a quello di Hard Candy a livello di tempi, uso dell’illuminazione e musica. Cifra stilistica o scelta imposta dal testo?
C. D’E.: «Probabilmente è il mio modo di sentire il tempo del teatro, la mia maniera di raccontare. Però condivido quanto ha detto perché Hard Candy e Notti Bianche fanno parte di un medesimo sentire. Innanzi tutto, sono entrambi degli estremi e poi mi piace pensare all’azione teatrale non solamente come testo ma dando la giusta importanza alla musica, all’illuminazione, alla dimensione non verbale, altrettanto fondamentali nella drammaturgia dell’azione. Quindi, sì, questo è un modo di fare teatro».

Lei è anche direttore del Libero che, in pochi anni, ha raccolto un seguito considerevole di pubblico. Come lo spiega?
C. D’E.: «Bisognerebbe chiederlo al pubblico! Seriamente, all’inizio andavamo noi a cercare gli spettatori: nelle università, ad esempio. Abbiamo creato una mailing list con oltre 100 mila nominativi. Dietro al nostro teatro c’è una modalità organizzativa e di comunicazione che funziona. E poi mi piace pensare che al pubblico piaccia quello che vede. La nostra è una proposta contemporanea, indipendentemente dalla data di composizione del testo. I nostri spettacoli hanno sempre un rapporto col tempo presente, nel linguaggio e anche nella scelta dei temi trattati».

In questo momento il Libero è chiuso. Cosa è successo e cosa spera accadrà?
C. D’E.: «Tutto ha inizio a luglio, quando la Commissione di Vigilanza riscontra in sala più spettatori di quelli previsti – cosa che peraltro succede spesso a teatro – e ci impone la chiusura. Durante l’estate facciamo una serie di lavori, riducendo la sala a 94 posti – trasformandola quindi in una saletta per privilegiati, che non so davvero come potremo mantenere – mentre, nel frattempo, la proprietà innalza dei ponteggi in cortile dove immettono le nostre tre uscite di sicurezza – e tengo a sottolineare il numero, rapportato a quello degli spettatori. Per farla breve, la Commissione di Vigilanza ritorna per controllare che i lavori richiesti siano stati eseguiti. In attesa dell’arrivo dei vigili del fuoco per verificare la compatibilità dei ponteggi con la sicurezza del teatro, si mette a controllare la sala stessa palmo a palmo e il risultato è la richiesta di una serie ulteriore di lavori per un ammontare di circa 50 mila Euro di spesa. A questo punto il Comune di Milano ci dà massima disponibilità ma non ci sono fondi al momento e, quindi, la palla è ora in mano alla proprietà che dovrebbe anticipare i lavori. Attendiamo una risposta a giorni. Sono comunque sereno: se è volontà della città, riapriremo, altrimenti faremo i nostri spettacoli in altre sale e in giro per l’Italia».

In un momento di crisi come questo, soprattutto dal punto di vista del lavoro, cosa succederà ai vostri collaboratori?
C. D’E.: «Al momento stiamo comunque retribuendo i nostri collaboratori e questo comporta una perdita economica di 2.000 Euro al giorno. Chiuso il Teatro Libero, che è una struttura anche economica che dà lavoro a tante persone, queste persone si ritroveranno purtroppo disoccupate».

Si sente parlare spesso di necessità, oggi più che mai, di teatro e cultura. La pensa anche lei così?
C. D’E.: «Questa è una necessità ribadita all’estero da ministri e politici: in Francia, Germania, Gran Bretagna. È provato che in epoche buie come la nostra investire sulla cultura e il sapere migliora la qualità della vita. Però, come dice il Ministro Bondi: “I nostri cittadini non mangiano cultura”, dimenticando che l’Italia non è un Paese del Terzo Mondo.  Il problema è che non sappiamo interpretare la crisi. Nei momenti più difficili, chi è capace di guardare al futuro riesce a impostare meglio il presente. Coloro che governano tagliano in maniera generalizzata, senza discernimento. Se al contrario avessimo una politica culturale – due parole bellissime: politica e cultura, che messe insieme creano una direzione – la politica indicherebbe le priorità sulle quali investire e noi che facciamo cultura sapremmo come muoverci».

Molte compagnie a Milano sono ospiti di sale parrocchiali. Al Libero non hanno mai fatto proposte simili?
C. D’E.: «Purtroppo questi sono gli unici spazi presenti a Milano, che non è una città che disponga di molte sale teatrali. Infatti, se chiediamo al Comune un teatro, la risposta è che non ce ne sono. L’alternativa è la sala della Parrocchia ma, vista la mia esperienza passata e con tutto il rispetto, sono convinto che sia difficile essere liberi e raccontare ciò che si vuole se si è ospitati in tali strutture. E il nostro teatro si chiama così perché noi vogliamo essere liberi di raccontare ciò che vediamo con lo stile e l’interpretazione che scegliamo di darci. Escludendo il Porta Romana che sarà utilizzabile a breve, le sale disponibili sono solo in estrema periferia».

All’interno della vostra stagione teatrale va in scena la rassegna Liberi Amori Possibili. Avete difficoltà a raccogliere finanziamenti per questo Festival che tratta di omoaffettività?
C. D’E.: «È difficilissimo parlare di omoaffettività. La nostra società tende sempre più a chiudersi. È quasi impossibile avere i patrocini da parte delle istituzioni. Non parliamo di finanziamenti pubblici – basti ricordare che sono caduti degli assessori come Vittorio Sgarbi sul tema dell’omosessualità. Siamo in pieno oscurantismo. Proprio ieri ho letto una frase che mi ha colpito: “Essere liberi non è fare ciò che si vuole ma sapere dove andare”. Oggi pensiamo di essere liberi perché possiamo scegliere tra la tv e la discoteca ma non è così. Noi del Libero sappiamo esattamente dove andare e cosa raccontare ma ci sono delle barriere, delle chiusure che vorrebbero impedircelo: nei comuni, nelle chiese, nelle cosiddette case di cultura. Inoltre il mondo laico a Milano – che dovrebbe essere la capitale di un certo modo di pensare la vita – non è abbastanza forte perché la politica ha escluso i cosiddetti temi etici dal discorso politico e questo è stato un errore».

Il prossimo progetto teatrale come regista?
C. D’E.: «La ripresa al Franco Parenti di uno spettacolo al quale sono molto legato, Caligola, che racconta ancora una volta della libertà, del dolore, della violenza. Un testo meraviglioso. E voglio ricordare che Andrée Ruth Shammah è stata la persona che forse più di ogni altra ha sentito il problema del nostro teatro e ci ha aiutati».

Allora è falso che i teatranti non si amano?
C. D’E.: «Si può raccontare la storia di questo momento ma non si può farne un paradigma. La sensazione che provo è che quando c’è poco da mangiare nel piatto e arriva un altro, si siede a tavola e capisci che attingerà alla stessa padella, è istintivo – un atto di conservazione – impedirglielo. In questa reazione si sente un urlo disperato. Noi teatranti fingiamo, ma se prima era poco adesso non basta più. A un certo punto uno morirà, due moriranno, ma cosa accadrà a quelli che restano?»