Balla, ma non passa

FrinjeSi apre la quarta edizione del Fringe Festival di Madrid con uno spettacolo ad alto impatto visivo, una danza macabra di artisti nella fossa dei leoni.

La scena del teatro sperimentale di Madrid è in fermento continuo. Molti degli artisti indipendenti si sono dati appuntamento dal 3 al 25 luglio per animare lo spazio polivalente dell’ex mattatoio cittadino. Cinquecento le proposte di spettacoli giunte da tutto il mondo, selezionati per comporre un programma che intende rompere gli stereotipi, liberarsi delle etichette, mettere il corpo in movimento e studiarlo, ammirarlo, attraverso performance sceniche, ma anche concerti, video installazioni, laboratori, spettacoli dedicati ai bambini (come capita a Edimburgo, e come speriamo succeda anche a Roma). Anche la capitale spagnola è pronta ad accogliere con entusiasmo il festival Frinje15, per la prima volta scritto così, proprio come si pronuncia.

 
Ad aprire le danze, uno spettacolo che scuote la sala Max Aub, dove è stato presentato in anteprima. Danzad malditos fa tremare il palco, tredici attori si scatenano in una galoppante maratona di danza, animati da un anfitrione in divisa da fantino con stivali e scudiscio, che li spinge allo stremo delle forze, in un crescendo di tensione erotica/fisica, ma soprattutto morale/psicologica. Lo spettacolo di Alberto Velasco si sviluppa in crescendo, in un’atmosfera tristemente cupa, lugubre quanto può esserlo l’angoscia. Fonte di ispirazione, la pellicola di Pollack, Non si uccidono così anche i cavalli? ingiustamente poco considerata. Il film, comunque candidato a cinque premi Oscar nel 1969, racconta le devastanti maratone di ballo, una moda negli Stati Uniti degli anni Trenta, sofferenti la prima enorme crisi economica moderna. I protagonisti, tra i quali una notevole Jane Fonda, sono allo sbando, si iscrivono al concorso perché non possono comprare un biglietto della lotteria, puntano al premio: i soldi alla coppia che resta in pista sulle sue gambe. Sono reietti, spostati, non hanno nulla da perdere, alle spalle giorni infelici e aspirazioni deluse. Si iscrivono anche per assicurarsi un posto dove dormire, durante le brevi pause dal ballo, e qualcosa da mangiare, in piedi, sempre in movimento. E poi la maratona è un evento mondano, fondamentalmente, uno spettacolo di intrattenimento, il pubblico assiste e fa il tifo o piazza una scommessa; pubblicitari e produttori cinematografici adocchiano chi di interessante c’è tra i concorrenti e avanzano proposte senza scrupoli, corrompono, lusingano, fomentano l’illusione che possa capitare infine una svolta. Lo zoo della perversione, come 1984, Il Signore delle mosche (o perché non Hunger Games), la realtà distopica di un mondo disumanizzato e al limite.
 
Prima del film, quindi molto prima dello spettacolo che ne hanno estratto Velasco e Félix Estaire, esiste un libro che vale la pena ricordare. In principio era Horace McCoy, sceneggiatore e poi romanziere americano che non smetteremo mai di riscoprire. Nel 1935 pubblica They Shoot Horses, Don’t They? (che ha fornito la base per la prima riduzione teatrale in Italia di Giorgio Mariuzzo, nel grandioso spettacolo di Gigi Dall’Aglio) e anticipa gran parte delle tematiche esistenzialiste che si svilupperanno di lì a poco in Europa. È in Francia, infatti che McCoy suscita particolare interesse, forse che il testo, tradotto da Gallimard nel 1946 – perciò prima di La nausea di Sartre (1938) e di Lo straniero di Camus (1942) , circolava in lingua originale anche durante la guerra. Forse, chissà. Intriso di atmosfere hard-boiled, il breve romanzo ha una struttura frammentata: seduto al banco degli imputati in un processo che lo accusa di omicidio a sangue freddo, l’ingenuo protagonista Robert Syverten ricorda in  flashback la storia che lo ha condotto fin lì, come e perché ha premuto il grilletto che ha interrotto la vita, o meglio liberato,  la giovane ragazza che conosceva appena e con la quale aveva ballato per oltre 800 ore. Considerata come satira del consumismo in una società debilitata, ma anche come autentico manifesto nichilista, il romanzo rappresenta anche una parodia nera del sogno dorato rappresentato da Hollywood e quindi, più in generale, dal successo. Ed è questo il tema sul quale si concentra Danzad malditos.
 
Gli attori compaiono sulla scena sconsolati, inetti. Girano intorno a una quinta di legno grezzo che sembra sprofondare in obliquo, giù nella terra che ricopre il pavimento. Sedie gettate a caso, tagliate a metà come i tavoli e i comò. Danno un’impressione di incompletezza. Girano, in fila, si danno la schiena, sono in mutande. Non hanno uno scopo, non hanno senso. Al ritmo della musica, si fermano, con un tilt, sono automi, e mentre indossano i vestiti sdruciti, i loro corpi scalciano, sbuffano, cavalli antropomorfi, carne da macello. Lo spazio scenico si trasforma nel corso dello spettacolo in una stalla, un’arena, un circo e, certamente, nella pista da ballo, sulla quale gli attori si rotolano, si azzuffano, si scontrano, si abbracciano, pestano, gridano, piangono, esplodono, in una successione tesa di stati d’animo, quasi senza sosta. Ognuno racconta la propria storia, ma non ci sono individui, piuttosto una comunità. Meglio ancora, una compagnia che sta recitando. La situazione è volutamente assurda e paradossale, dietro allo sforzo fisico, alla partecipazione degli interpreti resta un che di posticcio. I gesti sono artificiali, plastici, coreografati, a volte paiono quelli di marionette, altre di bestie sudate. Così risulta accresciuta la rappresentazione del dominio, di una violenza, di quanto siano inermi, fragili, come cavalli zoppi. Come i sognatori, anche. Gli artisti, i teatranti che inseguono la loro illusione, si animano durante “la loro ora” al centro pista, corrono una maratona senza esclusione di colpi contro tutto e tutti, gladiatori senza armi in una fossa di leoni, il mondo dello spettacolo. Un mondo tetro, un circo fatto di speranze ottuse che si ostinano a rinascere dalla terra che spesso invece ricopre solo la bara di aspettative mai raggiunte. Non c’è posto per la compassione dove non si ha pietà nemmeno per se stessi. Dove uccidere qualcuno è un «gesto d’amore».  «Nella disperazione si dà il meglio e il peggio di sé», confessa l’ambiguo presentatore, chiarendo come in una competizione così l’importante non è assolutamente partecipare, ma vincere. E vincere vuol dire essere scelti, apprezzati, amati dal pubblico. Privo di aggressività o rabbia nei confronti di una politica assente, come Dio, Danzad malditos rappresenta la situazione fuori dal comune di un artista oggi, e lo fa con grande inventiva, gusto e ironia, senza puntare sul senso di  annichilimento presente in McCoy, ma rappresentandolo con sguardo originale in uno spettacolo figlio del suo tempo, coinvolgente. Un contributo essenziale lo offre lo straordinario piano luci e la figura inquietante e allo stesso tempo ipnotica, interpretata da Verónica Ronda che si aggira con regale decadenza, come il ricordo di un sogno. È lei a citare La vida es sueño e infine a vestirsi per andare a lavoro, un impiego lontano anni luci dal palcoscenico, ma in costume. In divisa.
 
Il teatro come specchio del mondo, l’arte che racconta se stessa e mescola i piani della realtà è un tema che torna a più riprese. Come quando il concorrente eliminato inveisce contro il regista dell’opera e nel finale, acuto, in cui una persona scelta tra il pubblico decreta il vincitore della gara di ballo.
 
Sembra ricordare vagamente Chorus Line, il musical che, a scatola cinese, racconta il provino per comporne il cast. Racconta se stesso. La fine arriva quando si pronunciano i nomi dei prescelti. Le luci si spengono quando nella realtà drammaturgica inizia lo spettacolo. E il pubblico resta amareggiato. Di fronte a un mondo che sembra una lotteria, in cui niente ha veramente senso. In cui i personaggi girare in tondo, a vuoto.
 
Poi le luci si accendono insieme all’applauso. E per Danzad malditos, le brillanti idee di Velasco e la compagnia tutta, applausi, sì.
 
La danza de los malditos el despiadado maratón emocional de los soñadores, de los artistas de hoy. Los desesperados esfuerzos para sacar el premio, bien el éxito tanto como la realización.  Alberto Velasco firma una espectacular y original adaptación de Acaso no matan a los caballos? escrito por Horace McCoy. Con aguda ironía (pues una pizca de sadismo) dirige un grupo de actores incansables que logran representar un circo lúgubre donde dan vueltas sin llegar a nada y en el que los humanos se parecen a animales quebradizos, como caballos cojos que se matan en un “gesto de amor”. Danzad malditos es una obra que impacta. El público tiene que participar porque los bailarines son actores, los actores son empleados, los espectadores son jefes, tal vez jueces. Una crepitante inauguración del Frinje15 Madrid.

Lo spettacolo continua al Frinje15 Madrid:Teatro Sala Max Aub
El Matadero Madrid – Centro de creación contemporánea
Plaza de Legazpi, 8
venerdì 3 e sabato 4 luglio ore 20.00
durata 90 minuti

Danzad malditos
testo di Félix Estaire
regia di Alberto Velasco
aiuto regia Luis Ulzurrún
drammaturgia Félix Estaire, Alberto Velasco
con Guillermo Barrientos, Carmen Del Conte, José Luis Ferrer, Rubén Frías, Karmen Garay, Nuria López, Ignacio Mateos, Sara Párbole, Rulo Pardo, Txabi Pérez, Verónica Ronda, Ana Telenti, Sam Slade
consulenza alla regia Carlota Ferrer
scenografia Alessio Meloni
suono Mariano Marín
luci David Picazo
costumi Sara Sánchez de la Morena
musiche originali Mariano Marín
fotografie Pablo Rodrigo
grafiche Adrián Novoa