Ritratti d’autore

In occasione di Reality, in scena al Teatro Filodrammatici dal 10 al 15 marzo, abbiamo intervistato Daria Deflorian. Lo spettacolo, di cui insieme ad Antonio Tagliarini è ideatrice e performer, si ispira alla vita di Janina Turck, una donna polacca che per oltre cinquant’anni, fino all’ultimo giorno di vita, ha religiosamente compilato un diario, prendendo nota di pasti, persone incontrate, regali ricevuti, piccoli eventi divisi per categorie. Dati scarni, numerici. Una vita minuscola, ordinaria, stilizzata, eppure attraversata dalla Storia, con la s maiuscola – infima eppure speciale, eppure universale.
Daria Deflorian ci parla della genesi di questo intensissimo spettacolo.

Come mai avete scelto di partire dalla scena della sua morte?
Daria Deflorian: «In realtà non sono mai scelte razionali. Abbiamo deciso di far cominciare lo spettacolo da quella scena perché era un dato oggettivo. Non era possibile per lei registrare la morte e quindi la morte diventa quel fatto che esula da tutta quell’urgenza di prevedibilità e di regolarità che è dietro a questo tentativo di descrizione della realtà. Ci sembrava una dimensione interessante. E poi è nata così un po’ per gioco questa dimensione del morire bene, come morire, come si muore a teatro. E lo abbiamo accolto perché era anche un po’ un modo di far entrare il pubblico in una dimensione di interno/esterno, siete qua, noi non la rappresentiamo però vi parliamo di lei, un pochino siamo anche lei e anche a livello di linguaggio è una scena divertente, quello che nel teatro classico sarebbe stato un prologo».

Avete collaborato molto con enti polacchi. A che punto della lavoro sono entrati in gioco? E come avete lavorato sul testo? Da cosa siete partiti e come siete “arrivati”?
DD: «È stato interessante perché per molto tempo non abbiamo costruito niente, abbiamo fatto solo delle indagini, residenze, siamo stati in Polonia, ci hanno ospitati due volte, è stata un’esperienza molto diretta, molto fisica, abbiamo conosciuto la figlia, abbiamo visto la casa dove viveva, abbiamo fatto una residenza anche a Cracovia.
Ma questo ha prodotto una grande quantità di materiale cui non riuscivamo a dare uno sviluppo e una visibilità che non fosse troppo esperienziale o troppo meccanica, e solo verso la fine, 10 giorni prima del debutto, siamo riusciti a trovare questa dimensione che per noi è stata la chiave per costruire poi il lavoro che è quella di dire: noi non possiamo che inventare, i dati altrimenti non sarebbero carne, però poi vogliamo essere così onesti con lo spettatore da tirare via quello che abbiamo inventato per permettere di distinguere quello che è immaginazione inevitabile, da quello che è il dato, perché quando lavoravamo sulle due strade in maniera separata nessuna delle due ci convinceva, né l’invenzione né il puro elenco. Quando c’è stata l’intuizione che potevamo dialogare col pubblico proprio: su questa questione lo spettacolo è nato».

Come mai avete scelto lei, Janina?
DD: «C’erano due temi che erano precedenti a questo lavoro: da una parte quello su realtà e finzione, quindi il fatto di lavorare su un dato di realtà così macroscopico da un punto di vista di pura curiosità intellettuale era molto forte. E poi c’era questa dimensione che ci interessava della storia minore, del personaggio minore: in fondo questa è una questione che ci perseguita un po’, anche in Ce ne andiamo. Esistono i grandi protagonisti e poi esistono le vite qualunque e questa vita qualunque aveva qualcosa di eccezionale pur rimanendo una vita qualunque.
Poi ci siamo affezionati. Quando abbiamo cominciato a leggere di questo fatto di cronaca così singolare ci sembrava un po’ una curiosità da guinness dei primati, sembrava solo un fatto numerico. Poi invece è stato molto delicato e anche molto toccante entrare dentro una scelta di vita di questo tipo. Diciamo veramente poco rispetto a quello che sappiamo».

E com’è avvenuto l’incontro con questi diari? È stato un caso?
DD: «Sul giornale. Era esattamente questo periodo dell’anno, a Libri Come è stato invitato questo giornalista polacco che si chiama Mariusz Szczygiel, che da sempre si occupa di microstoria e macrostoria e di cui è grande fan Ezio Mauro. Lui veniva a parlare di un altro libro, ma su Repubblica Ezio Mauro ha fatto mettere una finestra, me la ricordo ancora, con un brano fatto tradurre apposta. Io ho un fratello che vive a Cracovia, mi sono fatta mandare il libro ma non pensavamo di farne uno spettacolo però spesso parlando tra noi ci capitava di usarla come esempio».

Come mai è stato pubblicato il diario, in Polonia?
DD: «Perché la figlia, quando è morta la madre, è andata a liberare la casa e ha fatto questa scoperta pazzesca e si è resa subito conto della portata di quel materiale. Nello stesso periodo, Szczygiel, che scrive sul corrispettivo della Repubblica, alla Gazzetta Varsava, aveva fatto un annuncio in cui chiedeva delle storie femminili per raccontare la Storia, con la s maiuscola, della Polonia. La figlia di Eva ha risposto a questo annuncio. Sono arrivate quasi 8000 candidature e Szczygiel ne ha scelte sei o sette che poi sono uscite in un volume ora pubblicato da Nottetempo. Poi noi abbiamo parlato con Szczygiel, l’abbiamo invitato, ha visto anche il lavoro. Lui stesso ci ha raccontato che, come noi, quando è entrato in casa e ha visto questa roba è rimasto shockato. Lui, per noi, è una guida perché questo rapporto con la Storia polacca, questo famoso 13 dicembre dell’81 per i polacchi è un giorno indimenticabile perché è stato l’inizio di 8-9 anni, fino alla caduta del muro, di durezza, di fatica a trovar da mangiare… gli assegnati, gente che ha perso il lavoro. È un simbolo per la Polonia e lui, prima ancora che noi vedessimo direttamente i diari, ha controllato tutte le categorie, che sono trentatré, per ricostruire tutta quella giornata. Comunque quella macrostoria si legge attraverso il fatto che in tv non ci sono programmi televisivi, che in strada c’è poca gente, e il pasto che lei fa – quattro fette biscottate, una mela – rispetto ai pranzi che faceva prima. Quindi lui da questo legge tutta la macrostoria. Noi non possiamo dare così tanto questo livello perché per noi italiani non racconterebbe molto. Però, per esempio, questa cosa di Auschwitz mostra come la storia entra dentro la vita. Noi non volevamo solo la Storia, volevamo la durata di un’esistenza, cos’è invecchiare, quando ti rendi conto che le categorie diminuiscono, rimangono solo le persone viste di sfuggita da dentro casa, i programmi televisivi e le colazioni, pranzi e cene».

Quello che fa lei è esattamente quello che succede oggi con Instagram e Facebook anche se secondo un principio inverso, per cui nasconde anziché mettere in mostra…
DD: «Esatto, c’è il massimo piacere della registrazione che c’è anche oggi, o oggi in particolare, però con questo nascondere, per questo noi parliamo di un Reality senza show, perché oggi nessuno può non legare la parola reality a show, però lei invece trattiene, e farne uno spettacolo era anche una scommessa verso di lei: come rispettare il suo segreto? Come non tradirla? Però, anche inevitabilmente mettere un po’ di carne, perché il teatro è fatto di figure, non di puri elenchi… Quindi la lotta è stata questa».