E 6 con la morte

delloscompiglioCinque performance alla Tenuta dello Scompiglio di Lucca: due weekend consacrati al trapasso.

Tu che vivi, uomo, donna, entità ignota. Tu che irridi il mondo, che brami senza conoscerla la vita, creatura ghiotta, chi sei?
«Io sono superbamente idiota.»
Estinzione. Essa è la fine, essa è più che fine. Annichilimento di corpo, impronta e memoria.
Tutto si estingue. L’uomo, grottesco esserino, porta marchiato nelle midolla il suo richiamo.
Siamo a Vorno, 28 Settembre. La Tenuta Dello Scompiglio, già teatro della Trilogia dell’Assenza di Cecilia Bertoni, ci presenta adesso Dentro/Fuori, se si vuole, un silenzioso pianto collettivo, una sessione di performance orchestrata in parte dalla Collectif Impatience (F), in parte dalla compagnia teatrale CaRma. Si vuol discutere di annullamento.
Si comincia con About Frames (A proposito di cornici, volendo tradurne il titolo). Fuori Tenuta, risalendo un pendio sterrato. Sabbia che vortica verso il cielo. Sassi e sterpaglia. Sedie. Due uomini, volti affranti, tute da lavoro. Una enorme cornice. Candela accesa sotto una campana di vetro. L’uomo la guarda vacillare, boccheggiare, estinguersi. Morta. Se ne va. Passa l’altro, uno specchio tra le mani. Gli uomini, le donne, il pubblico, l’umanità sbatte contro di esso e torna indietro. Siamo noi, tutti noi. Candele. Lo specchio si allontana. Una voce registrata ripete, c’è luce ed è uguale ad altra luce e il buio giunge assai lentamente, ma costante. E un’alba intatta riemerge ogni volta. Lo specchio si allontana, la voce si incrina, retrocede, disimpara, balbetta, borbotta, tartaglia vocali sconnesse. Specchio sparito. Laggiù, sulla linea dell’orizzonte, compare il primo fumo. E il fumo ingoia tutto, valica la cornice. Non c’è più nulla. Avido e vile è questo tempo senza remore, tanto che nulla risparmia, nè essere, nè memoria. Una creature si oppone, sbeffeggia, punta i piedi. Sereno e implacabile, il vento soggioga anche lei. Uomo ammantato di nero. Palloncini addosso. Cade. Pam. Pam. Pam. Ansima. Un solo palloncino. L’altro arriva, lo guarda a terra, esanime. Così algido mentre solleva il piede, lo cala. Pam. Non ansima più. Ecco About Frames, tra palloncini che esplodono, vespe e sentieri saponosi, discesi gridando, parlando, stringando l’esistenza nel verbo e cadendo, e cadendo, e cadendo. L’uomo cade ancora. Non si alza più, guarda lontano. Qualcosa sbaraglia il suo animo. «Io sono superbamente idiota», dice. Epifania tardiva, troppo tardiva. Un masso rotola lentamente giù, schiacciando tutti. E la pioggia, dice una donna, cantata nelle serenate giubilanti, la pioggia leggera e costante sommerge la terra con irrefrenabile dolcezza. E assai dolcemente affoga tutti noi. About Frames, un gioco di morte in cornice, un orlo, un simbolo: l’angoscia della vita, l’approssimarsi della morte. Che fare?
Western. Magari la risposta. Nelle tenebre del teatro di posa tre uomini, tre tragici pagliacci. Suoni hollywoodiani. Scava qualcuno. Calce, se ne avverte l’odore. Un po’ negli occhi. Buio. Una luce improvvisa, di volta in volta, e fugace. Gli occhi le si arpionano con avidità. I tre uomini si cercano. E si fuggono. Ripudiano la luce come foriera di morte. Chi vogliono eludere, costoro? Chi è l’inseguitore? Il pubblico? E l’oscurità rende chiunque servo devoto alla luce. I tre uomini si cercano. Cerchiamo i tre uomini. Siamo i tre uomini? Buio. Converrà infine, dopo tanta ricerca, trovarsi. Indigeno, cowboy, animatore da saloon. Diversi e avviluppati tristemente nei reciproci, immutabili ruoli. Luce. Conviene infine arrendersi al gioco. E abbracciamo, suvvia, questa esistenza di forme, recitiamo i ruoli e rendiamoci osceni, per quello che vale. E l’indigeno è il cronista di gara che fa smorfie nel microfono e grida senza forma né tono; e il cowboy è il politico, il patriota che borbotta in più lingue le sue frasi da pellicola e suscita l’ilarità (risate prepotenti sospingono il pubblico a ridere); e l’animatore è il fallimento dello spettacolo, l’idiota che deve, deve essere là, ora, con idee che non ha. Silenzio sulla sua dissimulata disperazione. E torna il buio. La risposta, forse, è un invito a cercarsi e travalicare, se possibile, le differenze individuali. In quel buio, in quell’utero immenso e buio che è forse l’intera esistenza umana si cercano le cellule umane. La vita. Paradossalmente l’autentico mistero è nella luce.
Portate in scena dalla Collectif Impatience (F) sotto il progetto di Perrine Mornay, About Frames e Western chiudono la prima parte del programma Dentro/Fuori.
E poi i CaRma. Un’altra estinzione, questa più definita e scortata, condotta per mano verso il proprio compimento.
Il progetto della compagnia, un autentico Trittico dell’annientamento è perturbato, in tutto il suo corso dalla presenza del panda, autentico oggetto iconico, effige dell’estinzione imminente (stiamo parlando di un animale che figura tra i primi nella lista delle specie a rischio) e di un passato idilliaco che non tornerà (si pensi che in Cina è simbolo di pace e serenità spirituale, meta ormai pressoché inconseguibile ai nostri giorni).
Epica Pop (col possibile significato di Epica del ripopolamento), prima tappa del trittico, performance nel 2009 trasmutata in video, ambienta nei boschi lucchesi una vicenda primitiva e confusa. Esseri umani sperduti tra gli alberi, soffusi di un’ingenuità ancestrale e fanciullesca, esseri che trascorrono il tempo a cercarsi, a inseguirsi, a sfuggirsi. A non potersi conoscere. Emblematica in proposito la scena del giovane uomo che, trovato un abito femminile tra le radici, insegue forsennatamente qualsiasi essere vivente nel tentativo di rintracciarne il proprietario, senza riuscirci. A queste situazioni di violento isolamento si contrappongono i panda, cricca beata e sprovveduta che si muove nel tentativo di trovare riparo dall’ecatombe della specie. A questo proposito assistiamo allo sforzo fallimentare della congrega nel provare a piantare nella foresta un segnale stradale di stop. Sorpresi dagli uomini, null’altro che il pubblico, si privano dei costumi e accettano la mescolanza. L’età d’oro è giunta al termine, ahinoi. E lo suggella l’ultima parte del video, un contorto scenario che vede tre persone uscire dai corpi dei panda, avvolte nelle uniformi della polizia scientifica. E scavano, e raccolgono prove. E trovano il morto, loro stessi, probabilmente. Funerale. La donna sviene. Più volte. Ancora panda, loro tre. Adesso non giocano più.
Ancora. Kokoro – Ritratto di un hikikomori, tappa centrale, si srotola lungo una piscina al calar della sera. C’è una storia, quella di Kokoro (Cuore, in giapponese), un pesce rosso, amato dal suo padrone, la voce narrante, quasi morbosamente. Kokoro è morto di fame. Di solitudine. Di isolamento (Hikikomori, ancora in giapponese). E in questo isolamento sprofonda l’uomo, il colpevole. Sprofondamento concretizzato dagli abissi della piscina, ai cui bordi sta un uomo, sta una donna, esseri zoomorfi come divinità egizie, per metà uomini, per metà i sospirati panda. Salvano l’uomo, affogato nella vasca e nell’hikikimori del suo spirito. Esseri positivi, distruttivi nel loro amore e ultimi della loro specie, i due panda accudiscono l’uomo teneramente. E poi lo sgomento, risvegliandosi, quando l’annegato si scopre intrappolato in un pallone gonfiabile, sospeso sull’acqua dell’hikikimori senza poterla toccare. Una tale prigionia, un isolamento provocatogli paradossalmente dagli amabili panda, rei di averlo confinato nella sfera per puro amore e senso di protezione. Lo stesso devastante amore che ha ucciso Kokoro. Ucciderà lui, ora. Storia intensa come il finale, gli attori che emergono dalle acque della piscina e che abbracciano la platea, uomo per uomo. L’isolamento è finito: è tempo di relazioni.
Ore 20.00, la notte è bagnata (per non parlare degli abiti! Abbracci molto coinvolgenti). Ultima performance al teatro di posa.
Abbiamo visto l’inizio dei rapporti umani: La verità è che mi manchi, forse la più ostica e al contempo la più essenziale tra le performance viste finora ci parla di essi, dei loro misteri, dei loro drammi. Ancora un isolamento, ancora una perdita. Più recitazione che effetti, almeno stavolta. Due coppie, due uomini succubi, una donna esasperata dai silenzi, un’altra torva, inasprita dalle esperienze. Dice la voce che la morte attende il finale. Morirà qualcuno. Chi? Non il panda – che è già morto. L’estinzione è compiuta. Di lui rimangono pupazzi, ricordi, immagini. E le donne, e gli uomini, chi può dire che non siano stati essi stessi panda in qualche delirante passato ancestrale? Si pensi, ad esempio, alle prime due scene che presentano la medesima azione, compiuta prima dal panda nella mente del protagonista uomo, poi dalla partner in seguito, nella nuda realtà. Le tensioni si esasperano, le personalità esondano. In scenari via via più grotteschi e contorti ogni maschera lascia trasparire la necessità intrinseca. a è tardi. E qualcuno, qualcosa è morto. Chi?
Il Trittico di Mauro Carulli chiude la giornata alla Tenuta.
Notte sui campi di Vorno. Camminiamo tutti verso le automobili.
Diretto ognuno alla propria estinzione.

Le performances hanno avuto luogo:
Collectif Impatience (F)
About Frames
Western

20-21-22 e 28-29 Settembre
(Venerdì dalle ore 18:15 – Sabato e Domenica dalle ore 16:45)

Un progetto di Perrine Mornay
con Serge Cartellier, Olivier Boréel, Gabriel Agosti.
Drammaturgia di Sophie Faria.
Luci di Cyril Leclerc.
Suono di Sébastien Rouiller.
Progetto sostenuto da Ménagerie de Verre (Studiolab) e Collectif 12 (Mantes-la-jolie)
Una commissione Associazione Culturale Dello Scompiglio.

CaRma
Epica Pop – Video
Kokoro – ritratto di un hikikomori
La verità è che mi manchi

21-22 e 27-28-29 Settembre
(Venerdì dalle ore 18:15 – Sabato e Domenica dalle ore 16:45)

Un progetto di Mauro Carulli
Con Mauro Carulli, Marco Conti, Marco di Campli San Vito, Mariagrazia Pompei, Noema Pasquali
Light designer Mara Caugusi
Una produzione Associazione Culturale Dello Scompiglio