Se una sera di primavera uno spettatore…

Al teatro Vittoria la messa in scena del trittico di Ascanio Celestini entra nel vivo con Discorsi alla nazione, testo paradossale dove il moderno fool è la nostra coscienza (sporca).

È abbastanza superfluo procedere alla disanima di un personaggio quale Ascanio Celestini. Su un attore del genere, e sul teatro che egli rappresenta, non ci sono mezze misure: o lo si ama o lo si odia. In entrambi i casi l’esito è lo stesso: si lascia la sala arrabbiati, come se fosse avvenuta una catarsi alla rovescia. Aristotelicamente parlando, non ci si purifica, non ci si monda, anzi, tutto il contrario: si sente all’improvviso addosso il peso dei propri peccati, etici, politici, storici, di classe, personali…
Ascanio reinterpreta oggi l’illustre tradizione del fool in senso shakespeariano, del giullare senza padroni la cui logorrea blasfema non si può controllare, sedare, irretire. E il fool, è noto, non è che il riflesso distorto, perché visto in modo troppo ravvicinato, di ciò che realmente siamo.
Seduti in un bel teatro siamo spettatori, ovvio, ma il jolly Ascanio, in cui, come in tutti i jolly si cela il ben più ustionante joker, ci inchioda assai presto senza edulcoranti orpelli al nostro ruolo di cittadini irrisolti, di individui ambigui che fanno scelte irriflessive ma comode, perseverando nell’ignorare la propria coscienza, inesorabilmente sporca, aggrappati a una diplomatica, opportunistica grazia che beffa qualunque rasoio alla Occam. Coscienza sporca che l’attore ci fa sentire tutta nell’ipnotica ripetizione del mantra laico: «Io sono di sinistra», convinzione ribadita con ossessiva assertività, scusa perfetta per giustificare qualunque bassezza, qualunque meschinità e piccineria d’anima.
Se in nomina sunt consequentia rerum, per dirla con Sant’Isidoro da Siviglia, l’ironia fuori luogo e caustica di Celestini, pur nel suo sottotono minimalista, finisce per somigliare alla spiritualità anacronistica e ruvida di papa Celestino V, costretto alla fuga dal disastro immorale dei suoi tempi. E se in effetti dovessimo schierarci oggi, il machiavellico Bonifacio VIII, per la sua logica violenta e efferata, ci sarebbe di certo più congeniale.
L’idea alla base dello spettacolo è semplice, come nei miti, o nelle fiabe: in un Paese dove ininterrottamente piove, gli abitanti attendono il ripristino della tirannia. Ma si sa, anche nei mondi alla rovescia delle fiabe c’è comunque una morale.
Tra tirannia e repubblica, si scopre infatti, la differenza è nulla, come tra i differenti poteri che nel corso del tempo si sono alternati in Italia, i Savoia, il fascismo, la democrazia cristiana, il berlusconismo, nomi diversi, via via aggiornati per definire in fondo la medesima cosa: il liberticidio perenne che si consuma inesausto davanti a un popolo sempre più ottusamente reificato, sottomesso, umiliato. Sono cose che si sanno, certo, ma sentirsele sbattere in faccia una sera a teatro ha un sapore acido devastante, proprio perché quella verità teatro non è: dal momento che della situazione abbiamo consapevolezza, che cosa abbiamo fatto dunque per cambiarla…?
È questa la domanda retorica che aleggia in ogni piega dello spettacolo, mentre, tra sprazzi di luce aranciate e scheletriche, si susseguono i monologhi dei personaggi vinti, arrabbiati, disonesti o, chissà, troppo onesti con se stessi, di questo Paese immaginario e lugubre che perversamente ci somiglia, e grottescamente si fa specchio dell’indicibile che alberghiamo noi stessi, prigionieri dei nostri razzismi quotidiani, di idiosincrasie intolleranti, di scaltrezze immorali, degradanti la società’intera.
Ecco allora che l’orrore suscitato dall’Uomo con l’ombrello o dall’Uomo con la pistola nel giro di una manciata di minuti comincia a suonarci familiare, e la loro caricatura si stempera nel disegno realistico, fino allo choc del ritratto dal vero.
Il discorso presidenziale, che rappresenta l’acme tra le confessioni cui assistiamo, fa ridere e sanguinare, e ridere a sangue non è affatto di moda.
Commovente, in grado di zittire la sala come il più brechtiano dei j’accuse, l’anaforico elenco dei “Gramsci farebbe così”. Tocca il cuore, eppure si sopravvive.
In ginocchio si sopravvive sempre.

Lo spettacolo è in scena
Teatro Vittoria

Piazza Santa Maria Liberatrice 10, Roma
fino al 30 aprile
da martedì a sabato ore 21.00

Discorsi alla nazione. Uno spettacolo presidenziale
di Ascanio Celestini
con Ascanio Celestini
suono Andrea Pesce
produzione Fabbrica