Lo volle chiamare come nostro signore

L’Elfo Puccini raccoglie in questi giorni tre opere dell’artista calabrese Saverio La Ruina.

Dissonarata è una sorprendente rivelazione per chi non lo conoscesse, ma un regalo a chi già era stato rapito dalla dolcezza e intensità dei suoi racconti con la possibilità di conoscere il suo mondo attraverso un percorso in più tappe.

La scena è spoglia. Solo una sedia che pare affondare le radici nel cuore della terra. Sulla sinistra, la postazione del musicista, Gianfranco De Franco.
La Ruina entra in scena nel buio più assoluto. Ne sentiamo i passi e il respiro. Man mano si alzeranno le luci, ma si limiteranno a illuminare lui e il suo accompagnatore, lasciandoli circondati dal buio. Importante è il racconto, nient’altro.
E il racconto è in calabrese, misto a lucano. Parlato piano, simile a una preghiera: presto lo spettatore si lascia andare al suono della lingua, fino ad accoglierla e farsi l’orecchio, finalmente, quasi, capirla.
Lui porta abiti femminili, ma di una femminilità dagli occhi bassi, soffocata, coperta fino ai polsi e alle caviglie, dal sapore di sud Italia e medio oriente. Con questa lingua, questi vestiti e una gestualità curata al dettaglio, insieme potente e trattenuta, circondato da un palco buio, La Ruina dà voce a una donna che ripercorre la propria storia, fino al «giorno in cui è morta». In un mondo in cui una ragazza non sposata non può andare in giro da sola, se no è una «puttana», e deve camminare sempre «cu ‘a capa vasciata a cuntà i petri pi ‘nterra», altrimenti è una «puttana», in questo mondo scambiare qualche sorriso con un ragazzo può essere l’inizio della fine. Soprattutto se ci si fida di lui come di un angelo, perché questo ragazzo è lo sposo promesso e prima o poi arriverà il momento di stare insieme e poter girare liberamente per la città. A testa alta.

Nella storia che ci viene raccontata, l’angelo conduce la vergine nei campi e una, due, tre volte la possiede e lei, come ogni donna, per non rischiare di perderlo contrariandolo, lascia fare. Tanto, le dice lui, « spusamu, spusamu ». Ma in queste storie non «spusamu» mai. E quando non è più possibile nascondere la gravidanza impura, la famiglia decide di risolvere il problema della giovane «dissonorata». Dandole fuoco.
Abbiamo davanti agli occhi l’immagine vivissima di questa donna in fiamme, che arde come solo un Dio può ardere, e il suo bruciare è imbevuto di benzina e dolore.
Viene accudita da una zia, in una stalla. Ed è qui che partorisce. E noi che ascoltiamo abbiamo già capito. Riecheggiano in noi le parole di Lucio Dalla, immaginiamo quella ragazza che «gioca a far la donna con il bimbo da fasciare» e che per gioco o per amore «lo volle chiamare come nostro signore». Il frutto del disonore, qui, si chiama Saverio, non Gesù bambino, ma nasce proprio il giorno di Natale. La Ruina racconta una nascita, in qualche modo la propria, presentandosi come «frutto del seno suo, Gesù», frutto del seno di una donna disonorata, schiacciata dal potere maschile del padre, della società, di chi ha abusato di lei, di chi l’ha tradita, di chi l’ha disprezzata. Gesù bambino nasce forse proprio da quel peccato, che altro non è se non debolezza e sofferenza. Quasi che da tutta questa oppressione e prigionia femminile, la donna abbia dato alla luce uno spiraglio di libertà. E infatti in chiusura esplode un grido di ringraziamento alla vita, così dolorosa e che può dare così tanto: sono le parole di Gracias a la Vida di Mercedes Sosa, che ci accompagnano alla fine.
Come a dire, nonostante tutto c’è la Vita.
La Ruina parla con dolcezza e intensità di donne, violenza e potere. Dissonorata è una della tappe, un monologo al buio, ma illuminato quanto basta da riuscire spesso a far ridere o sorridere.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Elfo Puccini

Corso Buenos Aires 33, 20124 Milano
dal 27 al 29 gennaio h. 21.00

Scena Verticale presenta
Dissonorata
un delitto d’onore in Calabria
di e con Saverio La Ruina
musiche dal vivo di Gianfranco De Franco
luci Dario De Luca