Il tempo della vita

Al Manzoni di Pistoia arriva, in prima regionale, Emilia. Il lavoro denso di significati ed emozioni dell’autore e regista argentino Claudio Tolcachir.

Unica pecca di un lavoro perfetto il fatto di andare in scena in un teatro. In Emilia si comprende subito la forza, decisamente destabilizzante, forse persino esplosiva, che il lavoro di Tolcachir può raggiungere nell’ambiente raccolto della sua casa-teatro a Buenos Aires – là dove potremmo indugiare su quelle povere cose raccolte alla rinfusa, che riempiono un palco troppo distante. Cose figlie di un naufragio, più che di un trasloco: il naufragio di esistenze che cercano a stento di non arrendersi ai marosi, ma che sono destinate ad affogare e a perdersi, insieme ai propri ricordi.
Ed è il ricordo, il tema centrale del testo di Tolcachir, inteso non solamente nella sua valenza onirica o surreale, bensì quale metrica precisa per scandire la marea della vita. Il ricordo è il tempo cristallizzato della compresenza, della dilatazione ab absurdo, del recupero in extravaganza. Ecco quindi che è il tempo dilatato quello che ci attende a inizio spettacolo, scandito dalle parole lente e misurate, dai ritorni – eterni o meno, dalle considerazioni spurie – in quanto fluttuanti – di Emilia. Emilia che vaga, letteralmente, nel suo passato e in quel passato, per lei presente, recupera la figura di Walter bambino.
Questo tempo del ricordo ha anche un’ulteriore valenza, quella di fornire al pubblico un quadro più preciso dell’uomo che ci si trova di fronte: sfuggente, in apparenza amorevole, anzi quasi asfissiante nel suo essere amorevole nei confronti della moglie e del figlio di lei – che però ha cresciuto, come fosse suo. E su questo pronome possessivo, torneremo più avanti.
Scrivevamo del tempo. Il tempo della realtà inizia a radicarsi nel corpo centrale del dramma, assumendo la ritmica della quotidianità, di una giornata particolare – che particolare non è. Dalla lentezza quasi parossistica del ricordo e della Madeleine, si torna alle piccole faccende domestiche che scandiscono il nostro vivere – o il nostro lasciarci trapassare dalla vita. Fino a quando si compie la tragedia. E le tragedie, si sa, avvengono sempre all’improvviso: nella completa incomprensione di chi le subisce ma anche di coloro che le vedono accadere. Non ci si aspetta mai che il tempo possa sfuggirci, che l’atto violento, oltre che essere figlio di una logica apparentemente illogica, possa esperirsi in una frazione di secondo, compiendosi in quel punto, sospeso tra due voragini che si aprono tra il prima e il dopo; su quel trattino toccato dalla lancetta dei secondi che separa per sempre la vita dalla non vita, e poi dalla morte (successiva, perché occorre un tempo alla mente di chi resta per concepirla e accettarla e poi farla propria).
Suo. Questo è l’aggettivo e il pronome possessivo sul quale verte gran parte del discorso di Tolcachir. Perché i ricordi dell’infanzia di Walter, in realtà, sono solamente di Emilia. Perché l’amore dell’uomo è talmente totalizzante da essere escludente. Perché nessuno, in questo appartamento che ha i connotati di una spiaggia deserta, sulla quale siano naufragati quattro esseri persi a se stessi, sembra avere un legale autentico con l’altro da sé: ognuno è rinchiuso nel proprio io, nel proprio egoismo, nel proprio passato, nel proprio sogno a occhi aperti. Non esiste alcuna comunicazione possibile. Non esistono ponti tra questi isolotti sperduti.
Il lavoro di Tolcachir, sia a livello autorale che registico, ha talmente tanti connotati e sostrati che è impossibile ridurlo a una semplice recensione. Le stratificazioni psicologiche e stilistiche, gli agganci con la contemporaneità e con l’immaginario comune, sono talmente tanti che non è fattibile condensarli tutti in poche righe. Ci limiteremo ad aggiungere qualcosa su un’altra matrice stilistica che ci ha profondamente colpiti. L’aderenza del personaggio di Emilia, nei modi e nei rimandi, nelle divagazioni e nei ritorni, nei gesti e nelle incrinature della voce, a una figura di vecchio, che è insieme profondamente credibile e altrettanto profondamente fastidiosa. Perché il vecchio è il nostro riflesso tra qualche anno – uno specchio in cui non abbiamo nessuna voglia di guardarci. Ma, in questo caso, è anche il riflesso dell’infanzia, degli abbandoni e dell’egoismo, della costruzione di un io che porterà alla violenza; e in questo è ancora più fastidioso perché il male è davvero banale, davvero ordinario, davvero umano.
Un plauso a tutta la compagnia e uno specialissimo a Giulia Lazzarini (che ci aveva commosso alcuni anni fa con Muri – Prima e dopo Basaglia), che mantiene intatta quella voce da usignolo che si incrina e gorgheggia con una maestria rara, che rende credibile e autentico ogni personaggio del quale si riveste con amore.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Manzoni Pistoia

corso Antonio Gramsci, 127 – Pistoia
da venerdì 3 a domenica 5 novembre, ore 21.00 (domenica ore 16.00)

Emilia
scritto e diretto da Claudio Tolcachir
traduzione Cecilia Ligorio
con Giulia Lazzarini (Emilia), Sergio Romano (Walter), Pia Lanciotti (Carolina), Josafat Vagni (Leo) e Paolo Mazzarelli (Gabriel)
scene Paola Castrignanò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Foto di Achille Le Pera