Reale o reality?

A Contemporanea Festival torna Milo Rau con quattro storie di attori, nostri contemporanei. Molti i temi proposti, ma il risultato finale risulta manieristico e didattico.

Una scenografia opulenta di cui una parte, l’esterno dell’abitazione semidiroccata (forse, simbolicamente la nostra Europa e, soprattutto, il nostro Mediterraneo, martoriati), del tutto inutile (dato che viene girata a scena aperta dai quattro interpreti e non se ne ha più notizia).
Quattro attori, di cui Maia Morgenstern la più nota al grande pubblico (grazie anche alla sua partecipazione a kolossal, come il retorico La passione di Cristo di Mel Gibson e il capolavoro di Theo Angelopoulos, Lo sguardo di Ulisse, come ci ricorda anche lei stessa in scena), narrano vicende della loro esistenza. Due tra loro, Ramo Ali e Rami Khalaf (il primo curdo siriano, il secondo siriano), sono oggi rifugiati, rispettivamente, in Germania e in Francia. Il quarto, Akillas Karazissis, greco con origini russe, ha vissuto la giovinezza negli anni della dittatura dei colonnelli (tra il ’67 e il ’74).
Quattro storie che dovrebbero commuovere, far compartecipare il pubblico al dolore di intere generazioni e Paesi e che, al contrario, suscitano un senso di stucchevole ovvietà. Perché?
Partiamo da una premessa: dopo Abu Ghraib il mondo ha perso la propria innocenza (se mai ne ha posseduta una). Come Rau altrove afferma, il pubblico è ormai avvezzo a scene di brutalità. Quindi, ci si chiede: perché proporre e riproporre, ad esempio, le immagini dei morti siriani, torturati dal regime di Bashar al-Assad? Con quel fermo immagine sul fratello di Rami Khalaf, che dovrebbe suscitare orrore e compianto, e al contrario può suscitare lo stesso fastidio che si prova di fronte alla reiterazione del getto di sangue in un film splatter, e il giusto ritegno per il dolore altrui che troppo spesso si esibisce come una medaglia sul petto, invece di conservarlo nella propria intimità – in questo universo di mass media sempre più sclerotizzati sullo scandalo e il gossip strappalacrime. Oltre al fatto che non vediamo nemmeno un’immagine dei torturati dall’Isis o dai tanti fondamentalisti islamici. Ma si sa, questo è il rischio quando si traduce in drammaturgia il racconto personale: vedendo solo una faccia della medaglia, non si arriva mai alle ragioni di fondo, alla comprensione profonda di un fenomeno. E il teatro si riduce all’ennesima fonte massmediatica di parte (quegli stessi torturatori di Assad che ci dovrebbero fare orrore, quando erano al servizio della Cia per le extraordinary renditions, parevano tanto foschi?). E non aggiungiamo nulla sul padre di Khalaf. Secondo il figlio, dall’esercito che aveva servito per circa trent’anni, l’uomo ebbe solo una brandina sulla quale morì. Ma come? Se poco prima ci aveva detto che aveva ricevuto una pensione e aveva persino aperto un’attività commerciale? Misteri della memoria individuale.
Ma passiamo oltre. Il gossip sensazionalistico ha il suo momento clou nel racconto di Maia Morgenstern dei tradimenti e dei divorzi subiti. Come in un reality della peggior specie, dobbiamo sentirci raccontare dei suoi mariti e delle loro amanti. D’un tratto sembra di essere in platea, durante le riprese di una puntata di Uomini e donne. Certo, con più pudore. Ma la sostanza non cambia. Così come viene quasi da ridere quando Morgenstern si lamenta che nel regime di Ceaușescu la Coca Cola era carissima. Oggi, le cose vanno molto meglio in Romania. Forse un’attrice famosa non può accorgersene, ma alcune sue compatriote adesso possono comprarsela a un euro la Coca Cola, coi soldi che guadagnano facendo le badanti in Italia e in Europa, mentre le famiglie restano a casa – in attesa delle rimesse. E ancora, l’accenno al padre che ha voluto essere cremato, forse in ricordo del nonno morto ad Auschwitz. Nessun dubbio che la scelta sia molto più prosasticamente dovuta al fatto che l’uomo, come molti tra noi, era ateo? Ma, come scrivevamo, questo è il rischio con le storie cosiddette vere, ossia di cadere involontariamente nel ridicolo o nel retorico.
E passiamo alla frase più filmica dell’intero show: «Quando soffro io non piango, vomito». La pronuncia Ramo Ali mentre vomita (o finge di farlo: perché in realtà, abito scarpe e bocca restano perfettamente puliti) vicino alla tomba del padre. Un frammento di documentario che è l’ennesimo esempio dell’oscena messa in mostra del dolore personale, così cara ai media, con contorno di richiesta al videomaker di non girare e lo stesso che, imperterrito, continua a filmare. Come in un pessimo programma di tv verità. Per non dilungarsi sul fatto che Ali si lamenta della loro estrema povertà. Mi chiedo: ma se sei il tredicesimo di quattordici figli, a meno che tuo padre non fosse Onassis, è difficile pensare che tu potessi essere ricco. Eppure, in tutta quella povertà, sei riuscito a studiare e a diventare attore, a trasferirti in Germania e a rifarti una vita. Non si può dire lo stesso di tanti italiani, figli unici magari di operai, che non sono riusciti nemmeno ad avere una borsa di studio per andare all’università.
Last but not least, la testimonianza di Akillas Karazissis – la più sobria, la più ironica, certamente la più centrata e con i continui rimandi al teatro la più consona a riportare questo reality sui binari di una tragedia moderna. Ottima interpretazione la sua, specialmente quando recita autentici passi tragici e, non paia strano, ma proprio quei passi tragici sembrano i più veri, i più intimi, a riprova che non tutto è teatro (mentre tutto è politica).
E arriviamo con quest’ultima affermazione al vero nocciolo del problema: perché l’intero spettacolo è sembrato stucchevole e retorico?
Innanzi tutto, per i ritmi fortemente rallentati con quei siparietti con sottofondo di musica classica che restituiscono un manierismo di facciata che non riesce, comunque, a creare straniamento e, quindi, quello scarto che dovrebbe rendere la partecipazione dello spettatore più attenta e consapevole. La metateatralità è talmente palese da diventare semplicemente ridondante. Con quell’uso del video (spesso farraginoso dato che il cameraman – di volta in volta, uno o l’altro attore – stenta a mettere a fuoco o a muovere la telecamera nei passaggi da un interprete all’altro) che riporta continuamente alle confessioni da Grande Fratello più che a quelle di un torturato; con una recitazione tecnicamente talmente precisa da essere, proprio per questo, stonata e manieristica nel suo porgere il bicchiere d’acqua a suon di minuetto; in una macchina scenica puntuale come un orologio svizzero e, quindi, altrettanto fredda, laddove il teatro ha bisogno anche di pancia, di sporco, di sbavature ma, soprattutto, di autenticità, sincerità, umiltà.
Non piace mai fare paragoni ma pochi giorni fa è andato in scena Questo è il mio nome, di Teatro dell’Orsa (e qualche giorno prima era tornato a invadere le vie di Reggio Emilia, Argonauti). Entrambi agiti da rifugiati e richiedenti asilo, certamente non attori professionisti bensì pasticceri, gommisti e agricoltori. Frammenti delle loro esistenze intessute in una struttura drammaturgica forte, messi al servizio del teatro. Due opere che arrivano alla pancia e alla testa, coinvolgono, cambiano – gli attori in scena e, noi, spettatori consapevoli. Empire, al contrario, mette il teatro al servizio dei racconti privati degli attori. Questo è il suo peggior difetto, a modesta opinione di chi scrive. Come la televisione non riesce più a informare perché insegue lo scoop, così questo teatro non riesce a produrre l’effetto catartico (a cui aspira la tragedia) perché troppo intriso di mezzi e linguaggi altri e di quella pletora di ricordi e fatti personali di cui lo spettatore non sente oltre l’esigenza – né a casa propria davanti alla tv del dolore né, tanto meno, in teatro.

Lo spettacolo si è tenuto nell’ambito di Contemporanea:
Teatro Fabbricone

via Targetti, 10/12 – Prato
domenica 24 settembre, ore 17.00

Milo Rau (CH) presenta:
Empire
ideazione, testo e regia Milo Rau
testo e performance Ramo Ali, Akillas Karazissis, Rami Khalaf e Maia Morgenstern
scene e costumi Anton Lukas
video Marc Stephan
drammaturgia e ricerca Stefan Bläske e Mirjam Knapp
sound design Jens Baudisch