Astro del ciel

Al Teatro Argot va in scena un dramma di ieri, oggi e domani, ex Antigone sulla felicità, la visione di Maurizio Panici del «disagio che è in ognuno di noi», l’«invito ad abbandonare la cecità e l’egoismo» per un rinnovato «ascolto dell’altro».

Se è un’opinione consolidata quella che riconosce all’arte e ai miti dell’età classica la capacità di raccontare e rappresentare la complessità dell’esistenza in tutte le sue umane contraddizioni, è probabilmente nella tragedia sofoclea che la conflittualità del rapporto dell’individuo col sé, l’Altro e il mondo emerge nella più dilaniante e drammatica dirompenza. In particolare, tra le pièce più esplorate dal pensiero occidentale (a partire dalla celebre interpretazione dialettica proposta da Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito) troviamo l’Antigone, dramma senza tempo che ancora oggi stupisce per la profondità del piani prospettici e sconcerta per la capacità di restituzione di una sconfitta vissuta all’unisono da protagonisti contemporaneamente tanto colpevoli quanto innocenti l’uno nei confronti dell’altra.

L’inconciliabilità tra la dionisiaca «Legge del sangue o degli dei inferi» (Antigone) e l’apollinea «Legge della polis, o degli dèi» (Creonte), ovvero l’aut aut tra impersonali ideali normativi (che culmineranno nel moralistico daimonion socratico) al cui rispetto sembrerebbe demandata la possibilità del potere (e, di conseguenza, l’esistenza stessa del regno di Tebe) e il disperato «voglio tutto e subito» di chi stringe a sé l’oggi come se non ci fosse un domani disvela, infatti, l’epocale attualità dell’antinomia tra generi e tra generazioni in uno spettacolo in cui «si confrontano/scontrano il maschile e il femminile, la vecchiaia e la giovinezza, le ragioni della politica e le ragioni del sentimento».

Non potrebbe essere più radicale, il solco della contraddizione tra il di Creonte, che nega e omologa ogni differenza al proprio giudizio, caratterizzando la mediocrità di chi, scelto di giocare un ruolo sociale, ha finito per diventarne pedina, e il no con cui Antigone afferma positivamente l’esistenza dell’alterità, rivendicando in prima persona l’onere di una libertà senza se e senza ma da testimoniare e consegnare ai posteri; mentre è un geniale occultamento di ciò che sembra cruciale a determinare la straordinarietà che questa «semplificazione del modello greco» eredita fedelmente dalla versione originale, nonostante una collocazione temporale resa incerta – più che sospesa come nelle intenzioni drammaturgiche – da piccoli dettagli disfunzionali nei costumi e di linguaggio.

Reale oggetto di contesa non sarà, infatti, politico, il divieto legale di sepoltura imposto dal nuovo monarca per i nemici della patria, quanto la stessa personalità di Antigone, il cui inspiegabile comportamento – al di là di ogni ingenua apparenza – vorrà essere volontariamente e paradossalmente imperdonabile per chi, dall’alto della propria esperienza anagrafica, come Creonte, si considera de facto padrone del destino del Mondo. Superbo, ma sincero nel pensare di comprendere l’autentica essenza di Antigone meglio della stessa antagonista, autoritario nel pretendere di darle i migliori consigli, il Creonte di Panici rappresenta la figura dello spirito di chi, ormai adulto, giudica con oggettiva perentorietà l’altro, ne valuta con ovvietà e arroganza le motivazioni e, pensando di potersi prendere una responsabilità non chiesta, annulla quella distanza tra il sé e l’altra che costituisce la base minima di ogni forma di rispetto e dignità.

Attraversando la damnatio memoriae del «fratello Polinice ucciso per mano di Eteocle» in un rabbioso corpo a corpo, tingendo – di fronte a una platea sold out, stracolma di giovani studenti montessoriani – la scena spoglia dell’Argot di un dolore autentico e reale, che la struggente interpretazione di Valentina Carli lascia eccedere dalla semplice dimensione privata per ambire all’universalità di chi è vittima del potere e urla il proprio anelito di infinito, la «piccola Antigone» invoca al suo cieco e sordo interlocutore proprio il mantenimento di quella distanza, l’oltraggioso diritto all’incomprensione, la sostanziale e orgogliosa pretesa di non avere nulla di cui farsi perdonare e, soprattutto, nessuno a cui chiederlo, il perdono.

Lo schianto morale di Creonte e la morte di Antigone, che Panici lascia intuire e nasconde allo sguardo degli astanti, non avverranno in nome di un astratto ideale o di un santo martirio, quanto per rendere il senso in fieri di una vicenda mai conclusa, di una verità eterna e inattuale che, consegnata al di là del bene e del male, interroga le coscienze oltre i limiti di spazio e di tempo sulla responsabilità individuali delle azioni eterodirette.

Introdotte le due scelte di campo (il video del disordine di un Mondo alla deriva e 4.48 Psychosis, il poetico testamento di Sara Kane) da inserti esplicativi ma non pedanti, Ex Antigone sulla felicità è allora un allestimento nobile per le intenzioni maieutiche e non educative, che con particolare merito non indugia su inutili sperimentalismi, scegliendo di rappresentare la complessità (sopra descritta) in una struttura dialogica intensissima e di estrema essenzialità, affidandosi completamente al protagonismo di recitazioni emotivamente libere di esperire il palco e la relazione.

Ma più che un Panici ruggente nel restituire la densità del pathos di un uomo che eleva e celebra la propria sconfitta a unica via per lo stare al mondo, disorienta la meraviglia astrale della voce rotta, non lacrimosa, del corpo vibrante, non tremolante, di Valentina Carli, il cui vacillante equilibrio plasma con clamorosa efficacia i contorni di un personaggio splendidamente imperfetto. Una «piccola Antigone» stremata dal vuoto dell’incomunicabilità con Creonte, un’anima minuta che, nella più completa solitudine interiore, dà forma fisica alla lacerante angoscia di chi, pur di sentirsi vivo fino all’ultimo, ha scelto di volgersi lucidamente alla morte con passione e tormento, senza paura o rancore, lanciando un inno consapevole all’autenticità della vita. Così parafrasando idealmente quanto sia «bello morire per ciò in cui si crede» (Paolo Borsellino), perché «i paurosi muoiono mille volte […], chi ha coraggio […] solo una» (Giulio Cesare di William Shakespeare).

Lo spettacolo continua
Teatro Argot

Via Natale del Grande 27, Roma
dal 21 al 24 Aprile 2016
ore 21:00, domenica 18:00

Argot produzioni
ex ANTIGONE sulla felicità
adattamento e regia Maurizio Panici
con Valentina Carli e Maurizio Panici
aiuto regia Marzia G.Lea Pacella e Maria Stella Taccone
luci Daria Grispino
organizzazione Danilo Chiarello
ufficio stampa Giulia Taglienti
comunicazione Ludovica Angelini
promozione Ostinate e Contrarie