Il coraggio come scelta

Franco D’Ippolito, direttore artistico del Metastasio da circa un anno, racconta perché sia tornato a Prato, dopo l’esperienza fatta come direttore organizzativo nel triennio 2007/2010, per: «Riuscire a essere all’altezza della storia di questa struttura, puntando su un teatro coraggioso, capace di scelte conseguenti». Professionista che non teme le sfide, rivendica il valore della qualità nella sua programmazione, a dispetto dei parametri inseriti nel Decreto Ministeriale per i contributi allo spettacolo dal vivo: «Dalle prime slide presentate a Milano sull’attuale normativa Fus, ho espresso tutte le mie perplessità e le mie contrarietà. Devo però dire che molti di noi usano questa normativa come una foglia di fico per nascondere la vergogna. Perché è vero che gli algoritmi, determinate parametrazioni, l’eccesso di peso sulla quantità non sono assolutamente condivisibili. Ma, d’altra parte, è anche vero che ognuno di noi ha la responsabilità delle proprie scelte». E rispetto alle residenze, punta di diamante dell’innovazione teatrale e progetto al quale è stato particolarmente legato durante i suoi anni in Puglia, ricorda che: «avendo come cardine la gestione professionale di uno spazio teatrale pubblico, … il referente di questo spazio pubblico non può essere lo spettatore, bensì il cittadino».

Quali sono gli obiettivi che si è dato come direttore del Metastasio?
Franco D’Ippolito: «Sono arrivato al Met un anno fa, il 1° novembre. I miei obiettivi erano essenzialmente due. Il primo, artistico-culturale. Ovvero riuscire a essere all’altezza della storia di questa struttura, puntando su un teatro coraggioso, capace di scelte conseguenti. Oggi è facile dire che Prato è stato il Laboratorio di Ronconi. Ma allora, quando Ronconi fece la scelta di mettere in atto un certo tipo di lavoro, la sua decisione fu coraggiosa. Del resto, bisogna tenere presente un episodio che mi pare molto indicativo. Ossia che, l’unica volta nella storia amministrativa del Comune di Prato in cui è intervenuta una crisi di governo cittadino con relativo scioglimento del Consiglio comunale ed elezioni anticipate, tale situazione si sia verificata a causa del Laboratorio di Progettazione Teatrale di Luca Ronconi. Quando dico di voler essere all’altezza di questa storia e di cercare di continuarla, nel 2016, intendo dire che per me è indispensabile credere nelle scommesse artistiche e nei giovani artisti. Ronconi, del resto, quando venne qui, nel ’75, era anche lui giovane. E intendo, altresì, privilegiare scelte di repertorio contemporanee e, nello stesso tempo, popolari. Perché contemporaneo non significa autoreferenziale mentre popolare non equivale a palinsesto televisivo. Il secondo obiettivo era legato alla struttura. Al Metastasio ho avuto la fortuna di ritrovare la squadra di gestione che avevo formato nel precedente triennio. Il mio obiettivo, oggi, è quello di rafforzarne le competenze, affinché questo teatro si garantisca un orizzonte temporale abbastanza lungo, sostenuto da una forte squadra interna – il che permetterà alla struttura di affrontare con consapevolezza i rischi culturali che sono connessi alla storia coraggiosa del teatro».

Sempre più spesso i cartelloni dei teatri, anche di innovazione, si riempiono di spettacoli di botteghino. Ha affermato che popolare non equivale a palinsesto televisivo. Ci spiega l’alternativa?
F. D’I.: «Mi preme sottolineare due punti. In primis, popolare significa che riesce a toccare l’intelligenza, la sensibilità, la curiosità e l’interesse dei contemporanei. Ricordo una frase bellissima di Ronconi che scrisse, in un pezzo pubblicato sul Patalogo (Annuario dello spettacolo, prodotto da Ubu Libri dal 1979, n.d.g.), che non esistono categorie quali teatro classico, di ricerca, d’avanguardia o digestivo, bensì spettacoli belli e brutti. Sarò un ottimista ma, per me, tra uno spettacolo bello firmato da un nome anche televisivo e uno altrettanto bello della Raffaello Sanzio, non c’è differenza. Essere popolari, inoltre, non significa necessariamente abbassare il livello della qualità e dell’offerta».

I parametri quantitativi indicizzati dell’attuale Fus non favoriscono il nome di spicco – indipendentemente dal progetto culturale?
F. D’I.: «Dalle prime slide presentate a Milano sull’attuale normativa Fus, ho espresso tutte le mie perplessità e le mie contrarietà. Devo però dire che molti di noi usano questa normativa come una foglia di fico per nascondere la vergogna. Perché è vero che gli algoritmi, determinate parametrazioni, l’eccesso di peso sulla quantità non sono assolutamente condivisibili. Ma, d’altra parte, è anche vero che ognuno di noi ha la responsabilità delle proprie scelte. Del resto, il Decreto Ministeriale prevede che se un punto della dimensione qualitativa indicizzata vale, poniamo, 10.000 Euro; altrettanto vale un punto della qualità artistica. Per cui, nessuno ci impedisce di fare quello che ho dichiarato io stesso, per iscritto, nel progetto presentato al Ministero nel 2016, ossia che non voglio inseguire la quantità a ogni costo. Mi sento tranquillo quando affermo di poter perdere cinque punti sulla dimensione quantitativa, in quanto scommetto di riguadagnarli in base alla qualità. Per esemplificare, se perdo cinque punti di qualità indicizzata o dimensione quantitativa, avrò perso 50.000 Euro (ponendo il valore punti a 10.000 Euro); ma se ne guadagno altrettanti grazie alla qualità artistica del progetto, il risultato finale sarà pari, dimostrando che si può scommettere sulla qualità. Questo non significa che non stia attento agli indicatori della quantità di attività. Non tanto perché il Ministero dà loro un peso, ma in quanto il parametro indica l’offerta di servizi che propongo al cittadino. Ovviamente, c’è chi è disposto a fare questa scommessa e chi ritiene di essere costretto – e qui si torna alla famosa foglia di fico – a inseguire la quantità».

Non pensa che le Compagnie italiane abbiano ancora una circuitazione prettamente nazionale e che si vedano pochi spettacoli stranieri – al di fuori dei Festival?
F. D’I.: «Questa è una domanda che necessita di una premessa. Il discorso è completamente diverso per la danza o la musica, essendo entrambe linguaggi universali, ma la circuitazione internazionale dello spettacolo di prosa, per quanto possa non essere completamente e integralmente teatro di parola, ha di fatto una maggiore difficoltà a essere internazionalizzato tout-court. La lingua è, infatti, un ostacolo. Detto questo, è ovvio che un bello spettacolo riesce anche a superarlo. Quando noi parliamo di internazionalizzazione del teatro di prosa dobbiamo sapere che sarà comunque di nicchia – usando un termine che non amo particolarmente. E riguarderà unicamente grandi spettacoli di determinati maestri; oppure altri che, per loro natura, riescono a superare la barriera di cui parlavo».

Esistono realtà giovani, da Sotterraneo a Instabili Vaganti, che lavorano più o meno stabilmente all’estero. Sia perché sempre più attori italiani si destreggiano bene anche con la recitazione in altre lingue, sia in quanto molte Compagnie utilizzano linguaggi diversi dalla parola.
F. D’I.: «Secondo me, resta comunque un’internazionalizzazione di nicchia, basata su progetti specifici. Faccio l’esempio del Teatro Metastasio. A gennaio, con Danza Macabra, andremo a Parigi e, a febbraio, a Mosca. Ma si tratta di specificità. Penso sia difficile aprire un mercato internazionale in grado di far girare, con continuità e assiduità, gli spettacoli italiani all’estero. Del resto, accade la stessa cosa per le produzioni straniere che vogliono venire nel nostro Paese. In questa Stagione, ad esempio, il Met ospiterà il Faust, interpretato da attori e musicisti dell’Opera di Pechino. La scelta artistica è giustificata, però, dal fatto che mi sembra interessante il cortocircuito innescato da un grande mito della cultura europea, interpretato da artisti appartenenti alla più alta tradizione teatrale orientale. Occorre sempre una motivazione forte per fare simili scelte artistiche».

L’Opera di Pechino a Prato, città dove è evidente la forte presenza cinese. Il teatro come forma d’integrazione?
F. D’I.: «La comunità cinese è, purtroppo, una tra le più chiuse e, a Prato, come altrove, il problema dell’integrazione si riflette inevitabilmente anche sul pubblico teatrale. L’anno scorso, il Met ha ospitato Constanza Macras e gli artisti circensi cinesi (The Ghosts, n.d.g.), quest’anno l’Opera di Pechino. Sono tentativi anche in quella direzione ma sono, soprattutto, scelte di programmazione contemporanea per consentire al nostro pubblico di avere una visione la più ampia possibile».

Le residenze. Teoria e prassi. Come sono nate le residenze pugliesi e a quali esigenze rispondevano? Cosa intende, inoltre, con: “le residenze devono rivolgersi ai cittadini, non agli spettatori”?
F. D’I.: «Parto dalla seconda domanda. Le residenze sono state l’unico tentativo degli ultimi venti, forse trent’anni, di costruire una progettualità inedita nello spettacolo dal vivo. Non è detto, però, che inedita significhi rivoluzionaria. Qual è l’innovazione apportata dalle residenze? Dalla mia esperienza pluriennale, posso dire che la grande novità è rappresentata dal fatto che non si connaturano soltanto rispetto alle cosiddette alzate di sipario. Altrimenti, non vi sarebbe stato nulla di inedito – dato che al termine teatro si associa, da duemila anni, la messinscena. Le residenze hanno connotato la loro novità con una diversa modalità di rapporto con il territorio, il che significava avere non solo le relazioni che tutti i teatri intrattengono con il pubblico, ma allargare le stesse ai cittadini, ovvero a quegli uomini e donne che non sono ancora spettatori. Per quanto riguarda l’esperienza pugliese, ovvero Teatri abitati, avendo come cardine la gestione professionale di uno spazio teatrale pubblico, ci sembrava naturale, oltre che doveroso, che il referente dello spazio pubblico non potesse essere lo spettatore, bensì il cittadino. Come? In qualunque modo quella realtà professionale, alla quale l’Ente locale aveva affidato la gestione del teatro, intendesse farlo. Non solo abbiamo dichiarato questa finalità, ma l’abbiamo introiettata nella normativa, laddove chiedevamo ai soggetti residenti non un minimo di alzate di sipario o di spettacoli, bensì di aperture del teatro al pubblico. Questo poteva avvenire in un’infinità di modi, così che i cittadini, non ancora spettatori, cominciassero ad avere conoscenza e dimestichezza con quegli spazi che, essendo pubblici, erano anche loro. Non a caso, Teatri abitati. Abitati in un doppio senso: dalle Compagnie professionali, che avevano una casa dove poter esprimere la propria progettualità artistica e culturale. Ma anche dai cittadini, che spesso non vanno a teatro semplicemente perché hanno un immaginario del luogo, prima ancora che dello spettacolo, che in qualche modo li respinge. Uno tra i grandi meriti delle residenze, per quanto riguarda l’esperienza che conosco meglio, ossia quella pugliese, è stato di cominciare ad abbattere questo diaframma rispetto allo spazio. Abbiamo tentato di definire l’indefinibile, proprio perché le residenze possono essere diverse a seconda dei territori nei quali operano. Di conseguenza, per una residenza potrà essere fondamentale avere un rapporto puramente artistico con il territorio; mentre, per un’altra, un rapporto prettamente di servizio. L’importante è instaurare un rapporto».

Non crede che le residenze dovrebbero anche creare spettacoli o eventi site-specific per fare uscire il teatro dagli spazi deputati, portandolo tra i cittadini?
F. D’I.: «Sono contento di affermare che anche questo punto era ricompreso nel nostro progetto. Purtroppo, sono costretto a usare il verbo al passato. Un altro degli obblighi, pochi ma abbastanza mirati, che avevamo introdotto nel progetto Teatri abitati, e recepito nella normativa, era quello che, nel corso dell’anno, le Compagnie residenti (e uso i termini previsti dai bandi) avrebbero dovuto adottare un bene paesaggistico, storico, architettonico, territoriale, e svolgere in quel bene almeno un’azione teatrale. Oltre a raccontare quel bene, e a promuoverlo, all’interno del teatro».

Non dovrebbe essere anche valorizzata l’integrazione delle realtà artigianali, artistiche e culturali autoctone con il lavoro delle Compagnie residenti?
F. D’I.: «In Teatri abitati si è riusciti a far entrare la capacità professionale territoriale nella progettualità artistica. Faccio un solo esempio. La residenza teatrale di Ruvo di Puglia dell’Associazione Culturale Tra il dire e il fare (la Compagnia La Luna nel letto nasce nel 1992 e, dal 2008, gestisce, con il progetto Teatri Abitati. Residenze teatrali in Puglia, il Teatro Comunale di Ruvo di Puglia, n.d.g.), diretta da Michelangelo Campanale, ha scelto di confrontarsi, nella sua creazione artistica, con le capacità scenotecniche e illuminotecniche degli artigiani e delle imprese locali, tanto da modificare alcune visioni proprie per usare al meglio quelle esperienze. Perché anche questo abbatte il diaframma, rendendo il teatro, luogo della civitas».

Come può un direttore artistico, soprattutto di strutture importanti quali il Metastasio, superare la pratica dello scambio e costruire una Stagione teatrale basata su precise scelte culturali?
F. D’I.: «Innanzi tutto, questo mestiere si fa soltanto conoscendo quello di cui si parla. Non bisogna conoscere solo gli artisti, ma occorre vedere gli spettacoli. Personalmente, anche quando ero dall’altra parte della barricata, ossia consulente per le attività culturali della Regione Puglia, ho sempre visto almeno tre spettacoli a settimana. Perché lo ritengo parte del mio obbligo lavorativo e della mia prestazione professionale. Dopodiché, a volte si programmano anche spettacoli che non si sono ancora visti. Sia nel caso non abbiano debuttato – e qui ci si basa su una previsione, conoscendo testo, regista e attori. Sia nel caso lo spettacolo abbia già debuttato ma in spazi dove non è stato possibile recarsi. I direttori artistici hanno, comunque, una rete di relazioni con operatori o persone, che dovrebbero avere la loro stessa impostazione nel giudicare uno spettacolo e possono fornirne dei report. Ossia giudizi basati non sul gusto personale bensì, nel mio caso, sulla capacità di uno spettacolo di instaurare un determinato tipo di rapporto con il pubblico. Non credo si possa fare questo mestiere in altro modo, se si vuole farlo bene. Sulla questione degli scambi, facciamo un passo indietro. Gli scambi nascono tra la fine degli anni 60 e gli inizi dei ’70, per un accordo tra Paolo Grassi e Ivo Chiesa, allargato successivamente alle altre stabilità. L’accordo partiva dalla premessa che il cosiddetto teatro d’arte avesse difficoltà a entrare in un determinato mercato. Grassi e Chiesa decisero, quindi, di avviare la pratica dello scambio. Racconto sempre questo aneddoto per dimostrare che lo scambio non è pratica scandalosa quando è determinato dalla volontà di consentire a un pubblico diverso di vedere un prodotto artistico che, altrimenti, non riuscirebbe a essere visto. Al contrario, lo trovo una buona pratica. Lo scambio quando diventa patologia, secondo me? Laddove è l’unica ragione per la quale io vado a Milano e Milano viene a Prato. Indipendentemente dalla produzione artistica, e dalle motivazioni per ospitare, o essere ospitati, in una certa struttura. Questa degenerazione di quell’idea, che nasceva per ampliare la visibilità del teatro d’arte, non si può negare sia presente nel mercato teatrale italiano. La soluzione non si trova, però, né in nuove leggi né in forme di repressione, bensì nella competenza e nella responsabilità delle persone che sono chiamate a programmare».