Giovanna di Castiglia e il sego del tempo

Al Teatro Studio Uno, Giovanna sotto il sego del tempo riporta alla luce la storia di una donna che parla alla nostra sofferente modernità.

Giovanna folle per amore, o donna emancipata, schiacciata da un dovere di stato che non riesce ad accettare? Ecco lo spazio ambiguo in cui ogni spettatore sarà libero di trovare posizione, appaiando il proprio disagio di vivere a quello della regnante, nata nel 1479 a Toledo, sposa di Filippo il Bello, e madre di Carlo V, l’imperatore del regno su cui “non tramonta mai il sole”.

In scena, Patrizia Bernardini spinge un monologo teso, dal registro grottesco, dapprima con toni compassati, poi premendo sull’acceleratore di un ritmo sempre più allucinato. Il décor è fatto da grandi cubi di Rubik, che Giovanna di volta in volta compone: ora una croce, ora un muro, ora un labirinto, ora un trono insano, a cui la giovane regnante di fatto abdica, giudicando assai più vitale, piuttosto che la questione del potere, quella dell’amore materno. La richiesta di questo, rotola come un dado che di volta in volta mostra una faccia (la domanda negata) e il suo opposto (l’odio), che fa sintomo nel corpo, con l’alternarsi di bulimia compulsiva a giorni di disgustata astenia.

Il testo, secondo lo stile dell’autore Adriano Marenco, è un monologo fiammeggiante che di fatto replica un delirio, in cui Giovanna narra le proprie ossessioni incapaci di trovare pace. È possibile cogliere nel discorso solo alcuni significanti, che aprono degli squarci sulla sofferenza femminile. Questa, dalla parola scende al corpo, e da qui risale: è un dialogo tra sordi, in grado solo di avanzare nelle rispettive ferite, assestandosi in un soliloquio che ristagna su se stesso. Ci accorgiamo che il senso appare e scompare; si può manifestare solo come suono (Giovanna rutta come se il linguaggio stesso facesse in lei bulimia), come danza oscena, come svestizione.

I cubi di Rubik di fatto possono rappresentare una combinatoria impossibile del senso, che – quand’anche riuscisse – non può dare consolazione alcuna, perché si tratta di disordinarlo di nuovo, per godere di una illusoria soluzione che non serve a niente. I cubi sono gli oggetti allucinatori che la impacciano; è sempre costretta a spostarli, per trovare nuovi ordini di senso, che subito mostrano la corda. I cubi sono anche la Storia, che per un attimo si distrae, e lascia passare una vicenda che vive nei suoi interstizi, che rinuncia all’apparato simbolico del potere per porre questioni che eccedono qualunque scrittura notariale.

Il paradosso del suo tempo e della sua nascita lascia a Giovanna solo una sorta di autoinflitta ascesi per porre eticamente la propria irriducibilità all’ordine regale e, quindi, all’ordine religioso che lo istituisce, trovando in Cristo un compagno di crocefissione, ma anche una voce che la spia, la chiama, sommandosi alle molte “voci” psicotiche che ne popolano la solitudine a Tordesillas, la fortezza in cui Giovanna rimarrà reclusa per quarantasei anni, fino alla morte.

La sensazione è che cogliamo Giovanna nel momento in cui il distacco dalla realtà sia compiuto; la sua ferita è trattabile alla stregua di un bizzarro patchwork di grottesche confessioni. A chi? Al pubblico certamente, che stasera ha patito con lei, a volte ha sorriso, forse dolendosi di essere arrivato troppo tardi all’appuntamento con quel disagio, quando questo ha perso la capacità di dire “io” e di rivolgersi a un “tu” (a sua madre, a suo marito, alla Spagna, a Dio). Senza nessun altro intorno, ora Giovanna è solo un cucciolo di tartaruga che non raggiungerà mai il mare, un penoso e allusivo caso clinico della Storia, ripetendo all’infinito quanto la propria terra sia ampia e dal “bacino largo”, quella stessa terra in cui non è possibile riposare, non tramontandovi mai il sole di un potere tormentoso.

Lo spettacolo continua
Teatro Studio Uno

via Carlo Della Rocca 6, Roma
dal 16 febbraio al 19 febbraio
giovedì, venerdì e sabato ore 21, domenica ore 18:00

Giovanna sotto il sego del tempo
di Adriano Marenco
con Patrizia Bernardini
regia Alessandra Caputo
musiche Rodolfo V. Puccio
scenografia Antonio Belardi
costumi Antonella d’Orsi Massimo e Valeria Cagioli
produzione Brema81