Nell’inutilità del dire c’è inutilità del sentire

Teatro Carcano, Teatro de Gl’incamminati, Teatro Stabile di Sardegna – in collaborazione con Teatro Comunale di Imola e Diablogues, Compagnia Vetrano-Randisi – portano in scena al Teatro Valle di Roma l’ultimo capolavoro di Luigi Pirandello.

All’interno del processo di riscrittura drammaturgica dei testi pirandelliani, che due palermitani doc come Enzo Vetrano e Stefano Randisi, stanno portando avanti da più di dieci anni, fin dall’esordio con Il berretto a sonagli del 99, e proseguito con la formazione di una compagnia dedita a uno specifico lavoro di ridefinizione di opere come L’uomo, la bestia e la virtù e l’ultimo lavoro incompiuto del maestro Pensaci, Giacomino! , I giganti della montagna segnano – a mio avviso – un passo avanti nella riattualizzazione progressiva del linguaggio pirandelliano, finalmente liberato dalle ideologie e dall’accademia, ricondotto allo sgomento identitario presente e al disorientamento che sembra invadere sempre più il nostro quotidiano.

Ridare corpo e sostanza vitale all’indagine pirandelliana dell’inconsistenza del reale e la presenza verace del sogno, è la scelta che muove tutta la messa in scena, attraverso la ricerca – quanto mai vana – di una logica in un caleidoscopico ginepraio intriso di realtà ed allucinazioni, di proiezioni psichiche e deliri inconsci, in una lotta costante per imporre un proprio vocabolario nella certezza della sua inutilità, della sua cronica incomunicabilità, ritirandosi sconfitti nel privato, «come un cane che dopo aver abbaiato a lungo si ritira nella sua cuccia», asserisce il Mago Cotrone.

Ed è proprio l’emblematica figura del mago (che torna spesso nella drammaturgia pirandelliana, basti pensare a La grande magia scritta a quattro mani con Eduardo de Filippo nel 1936), come intermediario tra umano e inumano, tra presente e passato, memoria e futuro, tra sonno e veglia, tra vita e morte, autentico rifinitore dei destini individuali e collettivi, a cristallizzare quella dialettica imprescindibile tra volontà e impossibilità concreta della stessa, l’illusione data alla “compagnia della contessa” (che irrompe nella sua villa) di poter finalmente rappresentare La favola del figlio perduto , l’inabilità a rappresentarsi veramente per ciò che si è, essendo schiavi dei propri personaggi, di non poterne mai uscire realmente, agendo sempre in conformità con le loro coscienze e i loro desideri, che arrivano a confondersi e spesso a sovrapporsi con quelli degli uomini vivi, in carne e ossa, che li rappresentano.

In questi gioco crudele, che è la vita proiettata in una costante non-vita, e con ciò vissuta come invissuta, in una irrapresentabilità che si sforza di giudicarsi rappresentabile, in una oscenità grottescamente di-mostrata, i due mondi della comunità degli “scalognati” del Mago Cotrone e “la compagnia della contessa” si fondono in un sol grido di vendetta nei confronti di un’esistenza che non “basta e non può bastare”, nella condanna senz’appello di cinque miseri sensi che non permettono all’uomo di andare oltre i suoi squallidi limiti terreni, di ente logico e civile, nell’essere ciò che intimamente vorrebbe essere, o essere stato, per non essere ciò che è oggi. La magia sta proprio nel poter vivere ciò che fino a quel momento sembrava pura e semplice fantasia scenica, partecipare a quel mistero – che è poi in fondo il teatro – di interpretare un personaggio che è parte di noi, per il semplice motivo che siamo noi nello sforzo disumano di realizzarci nell’esser altro. L’attore è colui il quale è altro pur rimanendo se stesso, acquisendo dal ruolo e donando al ruolo qualcosa di suo, nella certezza – infantile – di viverlo realmente, di dare voce e corpo ai suoi sogni.

In questa atmosfera carica di umori freudiani, di rimandi al simbolico, alla registrazione verbale di un inconscio collettivo che sfugge ad ogni tipo di decifrazione, ad una variazione tonale che materializza paradossalmente il volo pindarico dell’immaginazione, la contessa decide – nonostante il parere favorevole della sua compagnia – di lasciare la villa del mago, per riportare la sua poesia fra la gente e non recitarla a vuoto tra quelle quattro, misere mura, abitate solo da fantasmi, voci disperse nell’oblio e fantocci semoventi.

Nella scelta di una vita vera, eppure così maledettamente falsa e apparente, la contessa rompe il velo di maya, distruggendo quell’incantesimo ammaliante e dirompente del potere illimitato della fantasia, del gioco frenetico e, quanto mai delirante, dell’arte di recitare. L’unica speranza sembra essere quella di ritornare, per quanto sia possibile, a essere se stessi, a ricalcare le tavole del palcoscenico della vita; a rielaborare un uomo che – come l’ulivo saraceno descritto dallo stesso Pirandello morente al figlio – «è grande, in mezzo alla scena, con cui ho risolto tutto… per tirarvi il tendone…».

Lo spettacolo continua:
Teatro Valle
via del Teatro Valle, 21 – Roma
I Giganti della montagna
di Luigi Pirandello
regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi
luci Maurizio Viani
scene Marc’Antonio Brandolini
costumi Mela Dell’Erba
suono Alessandro Saviozzi
scena e fantocci realizzati da Leonardo Scarpa
la voce di Maddalena è di Jolanda Vacalebre

La compagnia della contessa
Ester Cucinotti e Maria Cucinotti: Ilse, detta La Contessa
Stefano Randisi: Il conte, suo marito
Marika Pugliatti: Diamante, la seconda donna
Giovanni Moschella: Cromo, il Caratterista
Giuliano Brunazzi: Spizzi, l’Attor giovane
Luigi Tabita: Battaglia, generico-donna
Enzo Vetrano: Cotrone, detto il Mago

Gli scalognati
Antonio Lo Presti: Duccio Doccia e il nano Quacquèo
Margherita Smedile: La Sgricia
Eleonora Giua: Mara-Mara e Maddalena
Paolo Baietta: Milordino