L’orizzonte della speranza

teatro-argot-studio-romaUn attimo prima del tamponamento contro l’austerità della natura le aspettative deviano, creando angoli acuti che negli anni compongono un labirinto e poi una fortezza in difesa del nulla, isolata come in un deserto.

La letteratura italiana del Novecento è un capitolo glorioso nella storia culturale europea e mondiale. In passato eravamo costretti a frequentarla, quando gli istituti scolastici non erano piste da maratona per il posto di lavoro sicuro o asili al riparo dal mondo, sorvegliati da personale accessorio e talvolta ostile, comunque molto più economico rispetto a una baby-sitter. Il voto che i governi hanno rivolto al degrado, ci costringe a rinunciare lentamente, e altrettanto inesorabilmente, al nostro patrimonio, gettare a mare le zavorre e a spiegare le vele alla leggerezza. Si compra o si parla di un libro di Verga al di fuori di un’aula liceale? Non c’è ragione. Così si dimenticano artisti necessari, autori di capolavori assoluti. Il deserto dei Tartari è certamente tra questi. Un libro difficile da catalogare, in bilico tra fantastico, surrealismo, esistenzialismo, in una tormentata ombra simbolicamente kafkiana. Un libro lento, calante, intrappolato in una rigorosa pacatezza, impastato di burocrazia. Dino Buzzati l’ha concepito lavorando di notte nella redazione del Corriere della Sera, durante l’eterna attesa di notizie da riportare in prima pagina che non arrivavano mai. Pubblicato per Longanesi nel 1940, è il terzo romanzo del giornalista bellunese, l’opera di maggior successo di Buzzati che continuerà a scrivere “per hobby”, anche in teatro, e “a lavorare” come pittore. I più zelanti recuperano con il film di Zurlini del 1976, ma sempre più spesso Il deserto dei Tartari resta impilato sul comodino tra i libri da leggere, chissà quando. A soffiare via la polvere ci ha pensato Woody Neri che si fa interprete appassionatamente furioso della passiva autodistruzione del tenente Drogo, consumato nell’inutile attesa di nemici dal deserto, nell’ordinata monotonia militare della Fortezza Bastiani. Pur essendo un testo nel quale è facile identificarsi, la statica narrazione univoca di Giovanni Drogo che osserva la realtà ma non la dichiara, al più la intuisce, non è propriamente teatrale, nel senso più ampio del termine. Eppure l’adattamento firmato da Maura Pettorruso, senza essere viziato di citazionismo, risulta essere qualcosa di sicuramente diverso, ma altrettanto efficace. Quindi non una lettura scenica e non solo monologo, Drogo rivolge le sue tormentate riflessioni a se stesso, al medico di stanza, ai suoi superiori o ai commilitoni, come anche al deserto di fronte ai suoi occhi, carico di attese. La guerra, questo bramato sconquasso nel quale sopravvivere trionfalmente o morire da eroi, tarda a scoppiare. Un ritardo lungo una vita. Quando i giorni si confondono uguali uno all’altro, disfatti, che diventa facile soccombere all’armata dell’apatia e ritrovarsi vecchi avendo mancato i palpiti, ma accusando i contraccolpi. Woody Neri nei panni di Drogo trascorre le stagioni cercando di comunicare un entusiasmo pian piano smorzato dagli eventi, pochi e miseri, della Fortezza Bastiani. Il vigore di gioventù, la cieca fiducia nel domani lo isolano in mezzo agli altri commilitoni, di fatto è solo in un deserto emotivo e fisico. Woody Neri sfida il deserto, metaforico e reale, quello in sala. Recita con impeto e ardore, per noi che siamo i suoi due unici spettatori. Una sfida al deserto, allo sconforto, alla consapevolezza che una bella serata primaverile sembra sprecata se si va a teatro invece che a prendere un gelato, una sfida alla nuova cultura che rifiuta autori classici come Buzzati, che rimuove collettivamente certe tristi verità, per esempio l’eventualità di morire vecchi da perfetti chiunque. Un professionista o meglio un innamorato del proprio mestiere per cui è importante dire anche se ad ascoltare sono in pochi, anche se anni di studio ed esperienza sembrano languire in confronto alle rappresentazioni amatoriali costantemente affollate di parenti e amici. In effetti, la scena teatrale si divide tra i grandi nomi da cartellone e il circolo di anonimi. In mezzo resta un universo in fermento di disciplina, reazione, costanza, dignità che scalpita in attesa che arrivi il momento avvinti nel “deserto dei Barbari”. Evidentemente in questa brutta Italia siamo patiti della pubblicità e del raffazzonato, non riusciamo a scrollarci di dosso il trauma della punizione dietro la lavagna se non distinguiamo la differenza tra teatro professionale e un puro divertimento privato, di chi si gingilla a tempo perso con le barzellette, senza nemmeno tenersi dal prendere per pazzi e per intellettuali chi si impegna a recitare Čechov il più onestamente possibile. Differenza c’è ed è palese. La prova è che anche in una sala semivuota il teatro diventa magico e ti cattura. Resta l’emergenza di ascoltare parole importanti, apprezzare un buon allestimento e fare sì che la surreale interpretazione di fronte a una platea vuota sia eccezione, piacevole proprio perché unica.

Lo spettacolo continua:
Teatro Argot Studio
via Natale Del Grande, 27 – Roma
fino a domenica 21 aprile
orari: da martedì a sabato ore 21.00, domenica ore 18.00 (lunedì riposo)
(durata 1 ora circa senza intervallo)

Provincia Autonoma di Trento, in coproduzione con Ecomuseo della Valle del Chiese presenta
Il deserto dei tartari
di Dino Buzzati
regia Carmen Giordano
con Woody Neri
adattamento Maura Pettorruso
organizzazione Daniele Filosi
con il patrocinio dell’Associazione Internazionale Dino Buzzati
media partnership Corriere della Sera, Corriere del Trentino