Il Teatro Stabile di Genova, in collaborazione con il Maggio Musicale Fiorentino, porta in scena al Teatro Valle di Roma, Il Dolore di Marguerite Duras.

In Le oscillazioni del gusto (Einaudi, Torino 1970), Gillo Dorfles registrava che “il pubblico [contemporaneo] vuole sempre il vecchio (piuttosto del nuovo) o un nuovo che sia altrettanto facilmente comprensibile del vecchio, dove la facility (facilità) sia integrale e non richieda neppure un briciolo di difficulty (difficoltà) per essere decifrata.”

In questa oggettiva situazione di stanca ripetitività artistica, Mariangela Melato si fa carico di un’operazione appassionante e in un certo qual modo ribelle, rispetto al formalismo degli ultimi anni, attraverso una recitazione “in presa diretta”, aderente alla storia di un’intera generazione (che civetta con la crisi esistenziale descritta così bene da Simone de Beauvoir in I mandarini), ma allo stesso tempo profondamente incastonata nell’esperienza emotiva della protagonista, che attende – come tante, troppe volte le donne hanno fatto – che il suo compagno, deportato in un campo di concentramento, torni da lei: omogenea a una moderna Penelope che aspetta il suo Ulisse, con echi di disagio viscerale nei confronti della “trasfigurazione corporale della morte bellica” che ricordano La storia di Elsa Morante.

La narrazione trae spunto dal ritrovamento di due vecchi quaderni spersi nella casa di campagna della Duras, in cui sono descritti gli anni che vanno dal 1943 al 1945: dall’attesa snervante del ritorno del compagno alla denuncia dell’invenzione tutta europea (di cui però l’intera umanità è responsabile) della somministrazione razionale dello sterminio, della morte di massa amministrata e gestita dalle burocrazie di partito, intrecciate con l’angoscia per il ritorno a una vita normale e l’impossibilità di gustarsi una pace fin troppo apparente – nella quale in realtà serpeggia quell’amara disillusione che anima l’impotenza nei confronti di un orrore troppo grande e inusitato, di cui Eduardo De Filippo ci offre un esempio mirabile in Napoli Milionaria.

Ed è precisamente questo senso di deleteria instabilità, di sospensione amorfa dell’esistente, che permette di constatare la perdita definitiva e senza ritorno di qualsiasi punto di riferimento tradizionale nell’analizzare una barbarie mai conosciuta, nel sentirsi partecipi involontari di un crepuscolo imminente che non è mai tale, di una svolta epocale in atto ma sublimata all’infinito, in una spazialità incostante eppure così essenziale, in cui collocare il proprio dolore, dare respiro a un’attesa che è non solo di una donna che spera che il suo amore ritorni sano e salvo, ma certifica lo smarrimento di un’umanità che lotta per ritornare a sé, dopo le indicibili lacerazioni belliche.

Un’ansia di riscatto connessa alla decostruzione complessiva dell’essere umano, che emerge chiara sia dalla partecipazione totale della Melato alle emozioni della Duras, sia da una messinscena coinvolgente e autenticamente gestuale, verbale e non verbosa, lucida ma nello stesso tempo rabbiosa nei confronti della follia allucinate e allucinatoria in cui cade e può cadere l’uomo, quando dimentica di essere un animale razionale dotato di una coscienza critica.

L’ambientazione sospesa tra deliri psicologici e realismo quotidiano, satura di arcaica terrestrità, figlia di un urlo soffocato e avvolgente che colma e dà senso allo sforzo recitativo, permette di entrare a pieno nell’orizzonte narrativo della Duras, nella sua spasmodica ricerca di un’identità e di un equilibrio perduti nelle intemperie disarmanti della storia, ma che è sempre possibile recuperare con la passione istintiva per la vita e nella costruzione di un futuro che non sempre è così nero come lo si dipinge. Nel monologo autocosciente di una donna è possibile inscrivere tutte le gioie e i dolori del mondo, tutte le strade che portano o meno alla felicità stessa del genere umano. In lei, vi è l’impazienza insaziabile dell’umanità stessa che chiede giustizia per i suoi morti e pace per i vivi.

Lo spettacolo continua:
Teatro Valle
via del Teatro Valle, 21 – Roma
fino a domenica 23 maggio

Il Dolore
di Marguerite Duras
traduzione Laura Guarino, Giovanni Mariotti
adattamento teatrale Massimo Luconi, Mariangela Melato
scena e regia Massimo Luconi
interprete Mariangela Melato
con Cristiano Dessì
costumi Paola Marchesin
musiche originali Mirio Cosottini
luci Sandro Sussi
Teatro Stabile di Genova in collaborazione con Maggio Musicale Fiorentino