Un giardino invisibile agli occhi

Al Teatro Filodrammatici è andata in scena una versione più sperimentale che performativa de Il giardino dei ciliegi, in cui l’innovazione non sta sempre al passo con l’esercizio di stile.

A cento anni dalla morte di Anton Čechov, fioccano anche in Italia rappresentazioni in chiave moderna dei suoi testi teatrali più celebri, e Il Giardino dei ciliegi (1903) non ha certo fatto eccezione. Si tratta dell’ultimo dei drammi – tuttavia, non va dimenticato che l’autore considerava quest’opera una commedia, praticamente un vaudeville – scritti per il Teatro d’Arte di Mosca, fondato nel 1898 da Konstantin Stanislavskij e Vladimir Nemirovič-Dančenko. Proprio l’inventore del Metodo ne diresse la prima assoluta con piglio naturalista e maniacale, facendone un requiem per un pubblico medio-borghese che nei decadenti protagonisti si riconobbe (forse) senza alcuna vergogna. Altri, in tempi più recenti, da Peter Brook a Giorgio Strehler, ne hanno diretto ben più valide interpretazioni, che soffrivano però tutte dei difetti della loro epoca. Impossibile il contrario.

«La verità è invisibile agli occhi», afferma Ljuba, che non è Ljuba ma una giovane attrice che interpreta Ljuba ma anche la figlia Anja. Vediamo solo ciò che vogliamo vedere, sembra invece intendere Benedetto Sicca, regista di questo Giardino dei ciliegi rivisitato, tagliato e moderatamente sperimentale. “Moderatamente” perché la ricerca scenica e linguistica del gruppo rinuncia presto ad affiancare l’autore russo nella sfida alla trappola del kitsch e si ritira in un blando e inoffensivo (quando non persino irritante) esercizio di stile. Un esercizio in forma laboratoriale – un po’ un work in progress –, niente meno. Non che manchino elementi positivi nel lavoro della compagnia, certamente. Però non sembra esserci alcuna reale innovazione: non si mette, in realtà, in discussione nulla. La scenografia minimalista e concettuale è ormai una prassi. La volontà di interazione col pubblico quasi un obbligo. La rilettura in chiave sociologica allo scopo di rimuovere il cecovismo imperante sui palcoscenici dello scorso secolo, addirittura un dovere. D’accordo, la scelta di musicare i momenti salienti con un violoncello suonato dal vivo sul proscenio è indubbiamente efficace e suggestiva. Anche se proprio questo accompagnamento (pur tecnicamente magistrale) tende a dimostrare un certo imbarazzo da parte di questi ragazzi nel concepire un Čechov brechtiano – è davvero impossibile prescindere da Strehler? – che faccia totalmente a meno di un certo pietismo nei confronti di personaggi che comunque tendono a danzare la propria “morte del cigno”. Forse il testo originale conteneva già in potenza un simile paradosso, ma qui l’impressione è che non si sia saputa prendere una decisione. Appunto, il finale: che dire delle citazioni da Cervantes? Curiose, ma quanto meno sospette. Possiamo comprendere la consapevolezza di mettere in scena delle maschere, ma qui siamo ai limiti del didascalismo.

Ad ogni modo, i momenti che funzionano, funzionano davvero. Per cominciare: la struttura a sketch con indicazioni di un regista interno che, alla bisogna, interpreta anche il maggiordomo Firs, presenta una certa inattaccabilità: Čechov non ha effettivamente “costretto” i suoi personaggi a vivere per momenti prestabiliti nonché tra pause insostenibili? Diremmo di sì. E le pause nella sua poetica più che insostenibili sono inopportune. Praticamente superflue, perciò necessarie al Teatro.

Parlare e tacere, per Čechov, sono le due facce di una stessa medaglia: quella dell’impossibilità, dell’incapacità espressiva. Del vuoto. Evidenziando le pause in didascalia – come si è fatto qui – ci sembra di poter evidenziare le altre pause, quelle parlate. Lì stava l’errore di Stanislavskij, il quale nelle sue regie non lasciava mai un attimo di silenzio. Invece, i movimenti studiati (e spesso ripetuti) di figure per certi versi più zombesche che spettrali, ricordano l’assurdo beckettiano, non Pirandello. A questo proposito, vediamo dei sordi che cercano di dialogare tra loro. Ci provano davvero? In ciò, probabilmente, sta l’enigma del testo. La discutibile trovata del regista è stata quella di far urlare e disperare i suoi attori, con piglio un po’ troppo psicanalitico. Meglio quei dialoghi allusivi che in passato si tendeva a tagliare con pudore o a coprire con l’enfasi di una recitazione tutta moine e che nello spettacolo di Sicca si fanno pura volgarità gestuale.

Gli interpreti sono tutti talentuosi, come ci si aspetta dai diplomati di un’accademia tanto illustre. Lopachin, figlio di contadini arricchito, boccheggia e grugnisce come un cinghiale in amore, si esprime con tirate mirabili, fermandosi solo per prender fiato (Franco Graziosi non è, in effetti, troppo lontano), e nel complesso fa la sua figura. Ljuba/Anja, invece, non è tanto una medaglia quanto uno specchio: la figlia si scopre nella madre più di quanto la madre non faccia nella figlia. Questo perché la donna è troppo impegnata a (non) ricordare la propria infanzia in quella casa, con quel giardino. E il figliolo perduto. Narcisisticamente. Tutto chiaro. Ma non può bastare. Piuttosto, l’eterno studente Petr sì, lo vogliamo promuovere. Ma, in fondo, non ci voleva un genio per comprendere la sua estrema e drammatica attualità. Questi si contorce nella finta indignazione; nel moralismo; puritano e ipocrita; buonista e saccente; privo d’identità come la maggior parte di noi. I personaggi minori hanno un loro senso in quanto macchiette, anche se in genere è parso di vedere una sorta di “servillismo” (un imitare il peggior Toni Servillo, insomma).

Pratica che, per quanto faccia piacere riderne, alla lunga scivola nel ridicolo. E, in conclusione: pur apprezzando le riflessioni sulle idiosincrasie di un’epoca, gli anni Ottanta, evidentemente pacchiana in ogni secolo, ci si domanda candidamente una cosa: perché lo scapolo filosofastro Leonid sarebbe diventato una checca isterica?!

Ancora una volta: «La verità è invisibile agli occhi».

Lo spettacolo continua
Teatro Filodrammatici

Via Filodrammatici, 1 – Milano
dal 23 ottobre al 2 novembre 2014
ore 21 – mercoledì e venerdì ore 19.30 – domenica ore 16.00

Il giardino dei ciliegi
da Anton Čechov
regia Benedetto Sicca
assistente alla regia Astrid Casali
musiche dal vivo Bruna Di Virgilio
con Riccardo Buffonini, Sonia Burgarello, Sara Drago, Mauro Lamantia, Giancarlo Latina, Luigi Maria Rausa, Beppe Salmetti, Carla Stara