Nostalgia: il ricordo delle cose passate

Presentato a giugno scorso in occasione del Napoli Teatro Festival, Il giardino dei ciliegi riletto da Luca De Fusco torna ad animare le serate del Mercadante della città partenopea.

Un ambizioso progetto quello del regista Luca De Fusco che per la stagione teatrale in corso ha scelto di portare in scena allo Stabile di Napoli ben tre opere di Cechov, ovvero Tre sorelle, Zio Vanja e appunto Il giardino dei ciliegi. Quest’ultimo è stato il primo dei tre titoli a essere rappresentato e ha senza dubbio bissato il successo ottenuto nel corso dell’anteprima estiva.
Immerso a pieno nel clima sociale, economico e culturale della Russia di fine XIX secolo, Il giardino dei ciliegi è il ritratto della decadenza dell’aristocrazia russa impreparata, se non incapace, nel cercare di stare al passo col presente, entrando così a gamba tesa nel Novecento. Protagonista dell’opera è la nobile Ljuba che dopo anni fa ritorno alla casa d’infanzia in procinto di essere messa all’asta per far fronte ai problemi economici in cui quest’ultima e la sua famiglia sono piombati. A poco valgono i ragionati consigli del più pratico (nonché capitalista in erba) amico Lopachin, che suggerisce loro di trasformare la proprietà in villini da cui trarre profitto.

Ljuba e famiglia – sordi e immobili, incapaci di abbandonare il confortevole guscio del passato – restano a guardare la propria inevitabile, triste fine. Proprio qui De Fusco realizza un interessante parallelo con l’aristocrazia napoletana del medesimo periodo storico, inadeguata a vivere la rivoluzione industriale allora in atto e dunque a fare il proprio ingresso nell’era moderna. Inserisce dunque qui e là sprazzi di napoletanità, che si snodano principalmente attraverso il linguaggio che evita, però, di divenire troppo cadenzato e di farsi vero e proprio dialetto. Una napoletanità perciò timida, che fa sentire non abbastanza la propria presenza. Ma Il giardino dei ciliegi è soprattutto nostalgia del passato, ferreo ancoraggio a quest’ultimo che impedisce di guardare avanti e sopravvivere; è ricordo, vecchie rimembranze che non si riescono a spazzare via, non perché non si possa, ma in quanto non si vuole.

Questo aspetto caratterizzante dell’opera vive egregiamente nelle scenografie bianchissime di Maurizio Balò, nei costumi meravigliosi di Maurizio Millenotti e nei giochi di luce di Gigi Saccomandi. La scena è candida, fatta di pochi elementi, bianco su bianco. Una grossa, imponente scala sovrasta tutto il resto, recando con sé i segni del vissuto e di quella decadenza di cui sopra. Attraverso questa inizia e termina lo spettacolo, in quelli che sono due dei momenti più belli di tutta la rappresentazione.

Al principio buona parte degli attori sono disposti sui suoi gradini, a ognuno il suo, fermi, congelati, anche se prendono la parola. Alla fine sarà sempre la scala a condurli via dalla casa, dal giardino, dal passato e dall’illusione che questo possa rivivere. Gli attori la salgono tuffandosi letteralmente fuori dalla scena una volta arrivati in cima. Tutto appare di ghiaccio sulla scena, come cristallizzato, ma al tempo stesso il candore richiama alla mente l’infanzia, l’innocenza, un clima quasi onirico in cui non esistono dolori e tutto è perfetto.

Le luci livide assecondano lo spazio e contribuiscono a rendere la scena fredda, immobile. Una messa in scena dunque funzionale, che sostiene il testo e che si completa con gli abiti, anch’essi immacolati e al tempo stesso sontuosi. Bravissimi gli attori, ottimamente calati nei loro ruoli, e bellissime le musiche originali curate da Ran Bagno. Dunque, un prodotto confezionato a dovere, impeccabile. C’è un però. L’opera risulta infatti, a ripetuti tratti, troppo verbosa, prolissa. Se si tiene presente che la scena resta la medesima (pochissimi sono i cambi di costume, di mobilio o di registro), è intuibile che più di due ore di rappresentazione finiscano per pesare, lasciando lo spettatore perso di tanto in tanto tra le chiacchiere apparentemente vacue dei protagonisti. Ritorna dunque quella sensazione di immobilità, ma stavolta non appartiene ai personaggi, quanto all’azione, che pare non proseguire nonostante l’inevitabile scorrere del tempo.

Lo spettacolo continua
Teatro Mercadante

Piazza Municipio 1, Napoli
dal 19 al 30 Novembre
giovedì ore 17.00, venerdì ore 21.00, sabato ore 19.00, domenica ore 18.00

Il giardino dei ciliegi
di Anton Cechov
traduzione Gianni Garrera
regia Luca De Fusco
con Gaia Aprea (Ljuba), Paolo Cresta (Jaša), Claudio Di Palma (Lopachin), Serena Marziale (Dunjaša), Alessandra Pacifico Griffini (Anja), Giacinto Palmarini (Trofimov), Alfonso Postiglione (Pišcik), Federica Sandrini (Varja), Gabriele Saurio (Epichodov), Sabrina Scuccimarra (Šarlotta), Paolo Serra (Gaev), Enzo Turrin (Firs)
scene Maurizio Balò
costumi Maurizio Millenotti
luci Gigi Saccomandi
coreografie Noa Wertheim
musiche Ran Bagno
produzione Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Verona