Homecoming, ovvero il perturbante di Pinter

Al Teatro Tordinona, è andata in scena una non convincente restituzione drammaturgica del capolavoro pinteriano, Il ritorno a casa.

“È solo questione di saper guardare al mondo. Della capacità di distacco che hai nel lavorare con le cose e non dentro le cose…La capacità di vedere, essere capaci di vedere! Io so vedere…”. Così afferma Teddy, uno dei protagonisti de Il ritorno a casa di Pinter, rivolto ai suoi familiari, e continua: “Voi siete soltanto degli oggetti. Vi… muovete di qui e di là. Io vi osservo. Vedo ciò che fate. fate le stesse cose che faccio io. Ma voi facendole vi perdete. Io invece non potrò mai … perdermi”. Difficile dire se Teddy sia davvero migliore dei suoi familiari o se non sia amorale e “perso” quanto loro. Di certo, il richiamo alla consapevolezza e al bisogno di vedere la realtà, nella sua oscenità e crudezza, costituisce il motivo conduttore della poetica di Pinter, che in questa pièce conduce una spietata analisi del potenziale distruttivo e dei rapporti di potere insiti in ogni costellazione familiare.

Das Unheimlich – Il perturbante: è il titolo del celebre saggio freudiano del ’19. Nelle prime pagine vi troviamo una dettagliata indagine lessicografica sui modi in cui altre lingue cercano di esprimere la stessa nozione (ad esempio, umcomfortable in inglese o inquiétant in francese), senza però mai eguagliare le sfumature presenti nella lingua tedesca. Heimlich indica ciò che è attinente alla casa, familiare, domestico, intimo, ma anche celato, tenuto lontano dagli sguardi, segreto; il suo opposto un-heimlich significa estraneo, spaesante, angosciante e – a causa di una bizzarra ambiguità semantica – coincide con la seconda accezione di heimlich. Come aveva già notato Schelling, un-heimlich è “tutto ciò che doveva rimanere segreto, ma è venuto alla luce”; come sottolinea Freud “l’elemento perturbante non è in realtà nulla di nuovo o estraneo, ma un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione poteva rendere estraneo”.
Il ritorno a casa di Harold Pinter, andato in scena al Teatro Tordinona di Roma per la regia di Carlo Lizzani, fino al 31 marzo, è il racconto di un’odissea – tutt’altro che edificante – in cui a tornare in famiglia, per pochi giorni e dopo una lunga assenza, è il primogenito Teddy, divenuto docente universitario di filosofia negli Stati Uniti, insieme alla moglie Ruth. Ad accoglierlo, nella stessa casa in cui aveva trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, il padre oramai settantenne Max, lo zio Sam, fratello di Max, e i due fratelli più piccoli Lenny e Joey. È ancora una volta la famiglia ad essere posta sotto la lente di ingrandimento in modo lucido e crudele: Max, afflitto dal duplice lutto del padre e della moglie, ha dovuto prendersi cura del fratello Sam e dei suoi figli. Lenny e Joey conducono le loro misere esistenze facendo scommesse sulle corse di cavalli o cercando di sfondare nel pugilato. Teddy – l’unico figlio che ha fatto carriera al di fuori del desolante contesto familiare – è un uomo debole e manipolabile: pur essendo sposato con Ruth, dalla quale ha avuto tre figli, accetta che i suoi familiari ne facciano una prostituta, trasformandola in una fonte di reddito per tutti. Ruth è una donna ambigua che, facendo leva sulla sua avvenenza da “ex modella”, non esita a rinunciare al ruolo di madre per dimostrarsi disponibile verso Lenny e soprattutto Joey, senza alcuna vergogna di fronte al marito.
Il quadro è aberrante: anziché essere il nido degli affetti, la famiglia è rappresentata come il luogo in cui ognuno dà libero sfogo a tutta la distruttività di cui è capace, ai propri impulsi sadici. L’effetto complessivo è perturbante, nel senso freudiano, perché a tornare sulla scena sono i fantasmi inconsci presenti nella psiche di ognuno di noi, cacciati dalla sfera vigile dell’Io, ma sempre pronti a riemergere, non appena se ne presenti l’occasione. Ciò che ci appare così estraneo e spaesante, in realtà ci è noto e familiare: Homecoming di Pinter, al di là o al di sotto delle vicende narrate, equivale ad un ritorno “a casa” del rimosso. La scena e il linguaggio teatrali si prestano in modo particolarmente efficace a svolgere questa catartica funzione, assumendo i contorni di uno spazio metafisico, in cui gli oggetti mentali più nascosti riacquistano il loro diritto di cittadinanza.
Dietro all’amore e al sesso si nasconde l’estenuante dialettica hegeliana delle autocoscienze, animata dal desiderio di riconoscimento: il signore domina sul servo e il servo si lascia sottomettere dal signore, salvo poi scoprire che quest’ultimo è “servo del servo” e il servo “signore del signore”. Padri e figli, uomo e donna – nel dramma familare di Pinter, come anche nella vita – lottano per il potere, dando vita ad un perturbante capovolgimento di ruoli. In definitiva, non c’è signore né servo, singolarmente presi, ma la necessità di affermare se stessi grazie al riconoscimento dell’altro. Del resto, su cosa si fondano i legami familiari, se non sul bisogno del padre e del maschio di esercitare la propria autorità nei confronti dei figli e delle femmine? E sul reciproco bisogno dei figli e delle femmine di emanciparsi dal padre e dal dominio maschile? A differenza di quanto viene narrato in Totem e tabù, il parricidio è sempre sul punto compiersi, ma alla fine – come nel saggio freudiano del ’13 – prevale la logica del branco, per cui i maschi della famiglia si alleano e sottomettono la donna, con la promessa di soldi facili in cambio di favori sessuali per sé e per altri. La “servitù” a cui Ruth appare ridotta si configura, però, in realtà, come una forma di dominio dei maschi della famiglia, perché è da lei che proverranno piacere erotico e maggiore benessere economico.

La pièce scritta da Pinter è diretta, dissacrante, oscena e funziona meglio di un saggio di antropologia sulle strutture della parentela o di un trattato di psicoanalisi sui complessi familiari. La resa teatrale della compagnia riunita da Carlo Lizzani non è, tuttavia, all’altezza della sfida: come non vi può essere abreazione senza la creazione di un setting analitico, così non vi può essere catarsi senza la creazione di un’atmosfera funzionale. Se gli attori rimangono figure che – seppure con impegno e dedizione – recitano una parte, non favorendo i processi di identificazione e di proiezione del pubblico, la rappresentazione appare poco coinvolgente e gli orchi o gli spettri a cui Pinter ha voluto dar voce non parlano davvero. Le sole eccezioni sono costituite proprio da Lizzani, che – oltre a essere il regista dello spettacolo – impersona Teddy in modo convicente, e da Jessie, la moglie di Max prematuramente scomparsa, e quindi non recitata da nessuno. La presenza di questo revenant è pesante come un macigno: idealizzata dal marito e dai figli, proprio perché morta, Jessie è stata una moglie fedifraga e con ogni probabilità una madre affettivamente assente. Come ha osservato lo psicoanalista André Green, non occorre che la madre sia morta realmente per essere una “madre morta”: il disinvestimento libidico di una madre verso i propri figli produce una lacuna incolmabile nei rapporti interni ed esterni alla famiglia e la costellazione parentale presentata da Pinter – con tutti i suoi deliri, la sua mancanza di empatia e di confine tra l’io e l’altro – sembra ruotare attorno a questa gigantesca assenza. Come ricorda lo stesso Green, “la lezione della madre morta è che un giorno anche lei deve morire perché un’altra possa essere amata. Ma questa morte deve essere dolce e lenta, di modo che il ricordo del suo amore non perisca e nutra l’amore che generosamente offrirà a colei che prenderà il suo posto”. Purtroppo, come ha magistralmente dimostrato Pinter in Homecoming, è cosa alquanto rara e le conseguenze di una tale mancanza d’amore non cessano di essere per noi perturbanti.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Tordinona
Via degli Acquasparta 16, Roma
dal 20 al 31 marzo

Il ritorno a casa
di Harold Pinter
traduzione di Alessandra Serra
regia di Carlo Lizzani
con (in ordine alfabetico)
Vittorio Caffè – Sam
Mario Ive – Max
Carlo Lizzani – Teddy
Valerio Ribeca – Joey
Marco Sicari – Lenny
Debora Troiani – Ruth
movimenti coreografici Cristina Pensiero
disegno e luci Valerio Camelin
costumi Ludovica Rosenfeld
illustrazione Alberto Ruggeri
produzione Attori & Tecnici