Stay human

Fondazione Teatro di Pontedera, illuminata struttura di ricerca e innovazione teatrale (che, testimonianza del suo essere un luogo privilegiato per la sperimentazione, diede i natali al Workcenter of Jerzy Grotowski), presenta Karamazov di César Brie: il rapporto, assurdo e impossibile, tra la condanna alla sofferenza della vita e l’asprirazione alla speranza della morte.

Complessa, tortuosa, monumentale: sono solo alcuni tra gli aggettivi con i quali è possibile definire (comunque per difetto) I fratelli Karamàzov, capolavoro immor(t)ale del romanziere russo Fëdor Dovstojevski.

Non è un testo semplice da portare in scena, le difficoltà sono insite a vario livello e, ancora oggi, confrontarsi con uno tra i maggiori rappresentanti della narrativa russa e mondiale rappresenta una sfida non da poco, anche per i drammaturghi più “blasonati” (si veda I demoni di Peter Stein).

Raccontata dalla coppia di servi cui il regista César Brie – tra i fondatori del Teatro de los Andes – ha scelto di assegnare la funzione di narratori interni, la storia ruota attorno ai membri derelitti della famiglia cha dà titolo all’opera. Il numeroso clan Karamazov è composto, innanzitutto, da Fëdor Pavlovic, uomo dissoluto, calcolatore e privo di scrupoli, capace di dedicarsi anima e corpo solamente all’alcool e all'(ab)uso di donne, interpretato da quello stesso César Brie che, nel corso della rappresentazione, ritroveremo con altrettanta autenticità negli opposti panni dello Starets (ovvero di colui che, per grazia divina, riesce ad amare incondizionatamente l’altro). Al patriarca, nel quale gli amanti delle serie tv potranno riconoscere l’antesignano del Frank Gallagher di Shameless, seguono le decedute mogli, la romantica Adelaida Ivanovna Mjusova (simbolo del fallimento di ogni tentativo di emancipazione famminile nella società russa/contemporanea) e la fragile Sofia Ivanovna (che subirà la volgarità del marito fino ad ammalarsi mortalmente), oltre che i quattro figli, Dmitrij (un passionale Vincenzo Occhionero, sicuro nel mettere in scena conflittuale primogenito che odia senza mezzi termini il padre), Ivàn (Gabriele Ciavarra, convincente nel mostrare come una Razionalità spinta all’estremo possa sfociare nello Scetticismo iperbolico e mettere in crisi anche i propri convincimenti), Alëša (un Pietro Traldi credibile sia nell’interpretare la devozione spirituale e la determinazione di chi vive «per l’immortalità senza alcun compromesso», sia nel duettare comico con l’amata – e monca – Lisa Chochlakov, una deliziosa Clelia Cicero) e, infine, l’illegittimo Smerdjakov (nato dalla scema del villaggio, stuprata da Fëdor), interpretato da un Giacomo Ferraù fedele nel testimoniare quel paradossale risentimento che, nella sua mancanza di logica, riuscirà a condurlo a mettere in atto l’impossibile delitto perfetto.

A completare l’adattamento voluto da Brie, un cast composto da attori giovanissimi (bravi e – solo prima dell’inizio – visibilmente emozionati dalla vicinanza del pubblico) del Cantiere delle Arti (il laboratorio di formazione dell’Emilia-Romagna Teatro) selezionati con Mia Fabbri al di fuori dalle accademie di teatro ma comunque magistrali nell’eseguire l’alternanza tra i registri recitativi, balli e canti e nel restituire quel poderoso apparato simbolico chiesto dal drammaturgo argentino per evitare di «innamorarsi delle parole» (corsivo dalle note di regia) – anche a costo di sopprimere il celebre monologo del Grande Inquisitore – e così rendere, della rappresentazione, straordinariamente potente e prioritario l’impatto visivo.
Una felice scelta registica che, ad esempio, abbiamo ammirato restituire attraverso il distendere i pantaloni e il tirare la corda, rispettivamente, le metafore del diventare adulti e della forma possibile dell’amore, oltre che svelare – attraverso il gesto del muoversi come marionette da parte degli interpreti – l’esistenza di un Fato il quale, privando gli esseri umani della libertà, li accomunerebbe in un tragico destino. Su tutti rimane indimenticabile la meravigliosa dinamica del momento in cui Ivàn fa l’amore con Katerina Ivanovna, in realtà innamorata del fratello Dmitrij, dal quale pure era stata ricattata: due stelle danzanti che, dopo essersi posti a distanza l’uno dall’altro e aver compiuto, in maniera speculare, le azioni – e le conseguenti reazioni – dello spogliarsi, realizzeranno uno straniamento totale, lasciando permanere l’empatia e far compiere al teatro per “sottrazione” una felice riduzione poetica a unica Arte universale.
Saranno questo momento, oltre che la regia, studiata nei minimi particolari per restituire efficacemente, attraverso la libertà d’azione degli interpreti, una sensazione di estrema naturalezza, a valere da solo il prezzo del biglietto.

Tuttavia è nel contesto in cui matura l’assassinio di Fëdor – e dal conseguente processo per parricidio di Dmitrij – che emergerà intatto il cuore del capolavoro letterario. Se a livello individuale l’angoscia diviene il sentimento dominante, a essere messo in crisi sarà l’intero apparato delle istituzioni (morali e umane) che dovrebbe dar ordine e valore alla vita. In questo Dostoevskij fu implacabile: che senso avrà dire Famiglia, se tale viene chiamata quella Karamazov? Quale credibilità potrà avere la giustizia umana se gli innocenti sono condannati? E quale potrà avere quella divina, se si nasce per soffrire e «i poveri vivono per essere umiliati ed essere concime per la religione»?

Karamazov di César Brie rappresenta allora una sfida al testo originario e agli spettatori e non si potrà che restarne sconcertati di fronte alla profondità con cui la si troverà (r)accolta dal regista di Buenos Aires.
Innanzitutto per l’impostazione scenografica, forse non innovativa, ma sicuramente ardita (anche per l’aspetto economico che determina), caratterizzata dalla amputazione di buona parte della platea (spariscono, infatti, le prime file del teatro) a favore di uno spazio scenico aperto, una struttura invasiva composta da 3 elementi fondamentali: un enorme tappeto dai colori e dalle linee sfuggenti (a ricordarci – con un’efficacia che richiama Dogville di Lars Vor Trier – il mondo liquido in cui vivono i personaggi e dal quale gli attori escono, pur rimandendo sempre sotto lo sguardo vigile e partecipato degli spettatori); uno sfondo scuro con croci appese usate quali grucce per i costumi che diventeranno metafora concreta del cimitero nel finale; e, infine, le panchine che durante la rappresentazione, scagliate pesantemente a terra o inclinate, assumeranno i vari volti della scenografia e sopra le quali, accanto agli attori, troveranno posto tre bambini, i manichini posti al centro dell’intenzione drammaturgica di Brie.

Una seconda e decisiva sfida è proprio quella prospettica relativa alla scelta del punto di vista da cui affrontare un testo che presenta molteplici (e co-sostanziali) sfaccettature interpretative. Se il romanziere russo – che i contemporanei lessero come reazionario (accomunato in questa sorte all’altro grande precursore-interprete della crisi della contemporaneità, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche) – con il suo capolavoro era stato capace di affrontare la tematica dell’esistenza del male da diverse angolazioni (filosofica e religiosa, con il serrato confronto sul nichilismo e l’esistenza di Dio; antropologica, sulla natura umana; sociologica, sulla funzione corruttrice della società e la valenza perversa della famiglia; politica, sulla convenzionalità delle regole e l’inutilità delle istituzioni; sentimentale, sull’amore come catarsi e unico ideale per il quale vivere o morire; esistenzialista, sulla vacuità e l’insensatezza della vita), il regista argentino sceglie di farlo focalizzandosi sul particolare interrogativo posto dai bambini, la cui importanza radicale sarà restituita attraverso quelle marionette mosse senza fili (dunque direttamente) dagli attori come a rendere esplicita sul palco la responsabilità degli adulti nei confronti della loro innocenza; ma anche con una pesantezza tale da costringere gli stessi burattinai a incespicare continuamente nel tentativo di condurli, quasi schiacciati dal fardello che essi rappresentano.

È proprio questo, infatti, il punto di vista assunto come fondamentale dalla rappresentazione, la questione essenziale sulla quale siamo interrogati esplicitamente dai monologhi finali.
Nel primo Ivàn è, pur rabbioso, quasi didascalico nell’affermare l’ateismo come unica strategia di senso possibile: cos’è se non un dovere morale rifiutare l’assurdità – e la conseguente crudeltà – di concetti come Dio o armonia universale, ossia di quella sorta di «bilancia divina» che, dovendo necessariamente compensare colpe e meriti in funzione di un al di là ultraterreno, permetterebbe che dei piccoli innocenti soffrano? E se – su questa o altra terra – non è possibile ammettere la presenza di Dio e dell’armonia (tertium non datur) accanto a quella del dolore (che riguarda chi non può ancora averne colpa) e del male (che tormenta chi non può nemmeno averne consapevolezza), com’è possibile che se ne abbia – in relazione agli infanti – continua esperienza?
Al contrario, è commovente per empatia e straordinario per lucidità quanto il cast al completo recita alla platea – per bocca di Brie – nel mentre che viene cinto di fiori il corpo del povero Iljuša, un bambino morto (anche) a causa di quell’orgoglio che aveva costretto il padre – umiliato da Dmitrij – a rifiutare denaro riparatore che avrebbe potuto usare per curarsi. Gli attori cantano, salgono le scale del teatro e prendono la via dell’uscita, lo spettacolo si chiude sulle parole «Non dimentichiamo Iljuša, non dimentichiamo i bambini». Dagli spettatori non arriva nessun applauso, sotto lo sguardo “sartriano” del manichino, la coscienza risulta intimorita, spaesata per pochi ma interminabili istanti; poi lo smarrimento termina e i protagonisti di questa lunga serata possono finalmente godere del giusto tributo.
Non c’è possibilità di purificazione dalla fallace condizione umana. E se la vita e la morte ci accomunano tutti, allora non dimentichiamo Iljuša. Restiamo umani.

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Lo spettacolo è andato in scena:
Fondazione Pontedera Teatro
Teatro Era
Parco Jerzy Grotowski
via dell’Indipendenza, 1 – Pontedera (PI)
sabato 31 marzo, ore 21.00

ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione presenta:
Karamàzov
liberamente tratto da I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij
adattamento e regia Cèsar Brie
con Cèsar Brie, Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi e Adalgisa Vavassori
musiche originali Pablo Brie
costumi Mia Fabbri
luci Paolo Pollo Rodighiero
pupazzi bambini Tiziano Fario
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione

Lo spettacolo continua:
Teatro Elfo Puccini
corso Buenos Aires, 33 – Milano
da martedì 10 aprile