Veemente dio d’una razza d’acciaio

teatro-del-giglio-luccaArriva l’Iliade al Giglio di Lucca, nel nuovo allestimento firmato dal Teatro del Carretto.

Sempre quest’uomo dovrà morire, piegare le gambe, accasciarsi, esalare il soffio. Son duemilacinquecento anni e più che fa gonfia la terra, la medesima terra, del proprio sangue, come un cuscino. Ettore. Sempre cadrai, principe, sotto il braccio di Achille.

E quale Achille. Anche adesso, tempo di automi scomposti, trapani ossessi, carname madido e pulsante, vampe, vampe sui muri. Terribile già allora, o Musa, narrami adesso la sua ira funesta, che sa di potere delle macchine e dei boati cinetici. Questo, stasera, è Achille.

Ha in sé l’idolo venerato dal Marinetti: egli è “Fusione dell’Acciaio e della Carne.[…] Immortalità dell’uomo!“. Immortale, sì, nel suo perpetuo morire.

Domenica 10 novembre, ore 16.30. Questo è il Giglio di Lucca. E questa è l’Iliade. L’epopea delle macchine, mai più degli uomini.

La Compagnia del Teatro del Carretto, che quest’anno corona trent’anni di attività sulla ribalta, presenta sotto i riflettori un susseguirsi di elementi robotici e feticci – con voce meccanica a narrare gli eventi, registrata, ma classica, così classica. Registrata quando? In epoche lontane, magari, quando dell’uomo non era la concezione del verbo strappato al vento.

La voce narra, placida e poi febbrile, i versi omerici, così grevi e incalzanti. Nulla di essi è stato corrotto, non le parole, né il flusso degli eventi. È per l’occhio il turbamento, che fu cieco in Omero. E non più uomini, ma grottesche di pietra, uno sdoppiamento, tanto fisico quanto allegorico, che si dirama dai lombi dell’attore, dai quali un secondo torso, ghignante e bestiale, prende corpo. Il guerriero prevale sull’uomo, pur restando da esso guidato e sorretto (tanto controllo occorre nell’uomo per mantenere vivido il mostro).

E non solo ai mortali, no. Si disvelino gli stessi dèi, che Maria Grazia Cipriani, la regista, ha voluto trasmutare in feticci urlanti, deformati in volto da grotteschi sberleffi, neonati assassini, buffoni. E c’è l’Olimpo, l’Olimpo vagheggiato dagli aedi, la sede inarrivabile del capriccio divino. Ed è un nido, questo presunto Paradiso artificiale, gremito di strepiti puerili e caos, finestrelle di legno grezzo aperte sui feticci, gli dèi prepotenti e mai cresciuti.

Cromaticamente predomina il rosso, abbastanza scontato, trattandosi di un poema bellico. Luci rosse, sangue che ammorba l’atmosfera stessa condensandosi in essa, effondendo il fiele. Lo spettacolo spoglia il poema della vicenda umana. Abbiamo davanti un susseguirsi di danze tribali, di grida, di combattimenti spietati. Unico amore, seppure soffocato, Achille e Patroclo. Ma non è mai solo, questo amore: la vendetta sospinge il Pelìde; la gloria e la patria il compagno segnato. E tutti muoiono selvaggiamente – mentre l’interruzione della vita pare farsi danza, i passi regolari e ripetitivi di un ballo ancestrale, ritmato dai tamburi della guerra.

Rosso e rosso e rosso. Il blu a tratti, il blu del mare, di Teti, marionetta ottusa, ma dignitosa, fugace sogno di una pacificazione che non avverrà. E un triste fato incombe sul Pelìde. Non fa che urlare, non conosce tregua. Tutti sono vittime della sua collera, lui compreso.

Questa è la guerra. Ogni uomo cade con Ilio grande. E le macchine, tutte queste macchine. Non è forse questa l’apoteosi dell’invenzione, il feto metallico che surclassa il padre e lo rovescia? La guerra sta alla meccanica come la pace all’umana natura. E qui ogni cosa è artificio.

Ilio cade: Ettore, caro Ettore, si rinnova, ancora una volta, la tua morte. Mai così pateticamente, appeso per i talloni come un moderno prodotto di macelleria. Ed ecco la sporca fine della pecora-automa della prima scena, trafitta da una lancia achea nel mentre nutriva il suo lattante; ed ecco la sporca fine del toro (un uomo, in realtà, oppresso da una testa artificiale), scarnificato dal leone. Fu vana la lotta, il disastro annunciato. Pure, vollero battersi. Tutti morirono, chi più, chi meno.

Il finale è suggellato da una presenza umana, la prima, la più reale. Lei è Andromaca, vedova, privata del figlio, lamentevole e schiava. Parla – e la voce è sua. Suona strana: ha note rassicuranti, la voce calda dell’essere umano, seppur rotta dal pianto delle Troiane euripidee.

Non resta altro, su questo campo. Tutti sono morti. La guerra, la macchina hanno obnubilato l’uomo.

Musa, non cantar più. Ti abbiamo registrata, ormai.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro del Giglio – Lucca
venerdì 8 e sabato 9, ore 21.00 – domenica 10 novembre, ore 16.30
L‘Iliade
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
scene e costumi Graziano Gregori
suono Hubert Westkemper
con Giovanni Balzaretti, Elena Nenè Barini, Nicolò Belliti, Andrea Jonathan Bertolai, Elsa Bossi, Fabio Pappacena, Giacomo Pecchia, Antonio Pomponio e Giacomo Vezzani