Al teatro Abarico di Roma, è andato in scena L’ultimo giorno di Gaio Caligola, Imperatore, per la regia di Mariagiovanna Rosati Hansen e Matteo Ziglio.

L’impressione è che quest’anno il teatro Abarico abbia compiuto un vero salto di qualità, sviluppando parallelamente la formazione professionale degli attori alla promozione di un cartellone ricco di classici e di suggestioni innovative, che invogliano lo spettatore a partecipare più da vicino all’evoluzione teatrale contemporanea. Anche l’essenziale ma funzionale spazio teatrale dell’Abarico arricchisce la rappresentazione, avvolgendo il pubblico in un’atmosfera cruda ma profondamente attenta al suo puntuale svolgimento, capace di fondersi – senza disperdersi – con il realismo della presa scenica.

All’interno di questa tendenza, la cronaca impietosa e inesorabile dell’ultimo giorno di vita del sovrano merita una menzione speciale.

È forse inevitabile che l’immagine storica della follia distruttiva del personaggio ha pesato e pesa ancora sulla sua definizione linguistica e scenica, in linea con le frequenti forzature gestuali e afasie verbali che rimandano alla geniale capacità dell’anti-teatro di Carmelo Bene di rendere “impossibile” ogni riproduzione scenica tradizionale, distruggendo alla radice la classica formula della comunicazione tra attore e spettatore, elaborando una grammatica recitativa ellittica, per così dire barocca, incapace di delineare storie, ma attenta a ricreare psicologie, stati d’animo, fantasie sopite da secoli.

È importante sottolineare che questo spunto critico, non solo non incrina ma addirittura esalta il fascino criptico e deleterio di Caligola (Giovanni Di Lonardo), schiavo della sua malata genialità onirica, inabile a fronteggiare e sconfiggere i demoni che lo attraversano e ne segnano l’ineluttabile declino. La centralità visiva dell’imperatore viene ben calibrata dalla presenza concreta e mai banale dei suoi cari, che tentano in ogni modo di comprenderne l’angoscia nell’orrore di un crepuscolo imminente.

La moglie Milonia (Francescaelisa Molari) auspica invano un suo pronto rinsavimento, non cogliendo fino in fondo la decostruzione in atto nel cuore e nella coscienza alienata del marito, mentre la danza e la saggezza fluida del consigliere-poeta, amante e confessore Lepido (Franco Heera Carola), rappresentano la perdita inesorabile di una leggera incoscienza ormai sepolta per sempre. Ed è interessante come ancora una volta il binomio danza-stasi, rimandi con forza al dualismo eterno tra vita e morte, creatività e ozio, fantasia e calcolo.

Nel caos in cui Caligola precipita dopo la morte dell’amata sorella Drusilla, una luce sembra arrivare dalla maestra di vita e nutrice Giunia (Mariagiovanna Rosati Hansen), l’unica in grado – data la sua profonda esperienza – di registrare l’irreparabile discesa agli inferi dell’imperatore, conscia dell’impossibilità di arginare un destino che si sta ormai compiendo. Giunia diventa così testimone diretta della spogliazione del sovrano di ogni suo ruolo, di ogni stupida e superflua maschera che per forza o per ragione ha dovuto indossare durante tutta la sua vita.

Nel terrore osceno del despota si consuma la sua progressiva nudità, il liberarsi dagli orpelli e dai vincoli del potere, celebrando con ciò il trapasso nel mondo della verità e della giustizia ultraterrena.

Il teatro ancora un volta si fa testimone di un ultimo spiraglio di vita, raccontando la morte come un viaggio attraverso cui rivedere e rivalutare la propria esistenza, riflettersi nei propri errori e nelle proprie vittorie, piccole o grandi che siano non importa; l’importante è che alla fine dei conti il bilancio sia in attivo.

Certo, Gaio Caligola non avrà la gioia di sedersi al tavolo dei vincitori. Neanche il suo immenso potere lo può salvare dalle spire di una morte attesa, cercata, desiderata, che lo liberi dal dolore terreno, da ogni brutale responsabilità quotidiana, dal fare i conti con la storia.

Morire significa porsi oltre gli scettri e gli altari, oltre le leggi e le morali, al di là dei giudizi degli uomini e le paure delle stagioni. L’eternità è l’unico universo senza timori né incomprensioni, in cui l’uomo può rispecchiarsi e ritrovarsi a pieno nella propria coscienza. Caligola rappresenta dunque l’impazienza del vivere attraverso l’ineluttabilità del morire.

Le crisi di panico dell’imperatore – calibrate astutamente con la calma indotta dai suoi cari – riflettono la sua vivente posterità, vicina alla profezia di Carmelo Bene: «che non occorre la morte per essere postumi; basta vivere». Ed è per questo che il Caligola messo in scena al teatro Abarico, non è l’ossessiva e sfruttata figura di un depravato condannato a morte dalla sua stessa follia, ma incarna l’ideale di un genio inatteso e ingovernabile, innocente coscienza lasciata marcire al sole delle ingiustizie terrene. È un personaggio antico ma moderno, familiare ma estraneo, astratto ma concreto, metafisico ma immanente, che tenta disperatamente di trovare un ruolo da espletare, una funzione da rispettare, nella speranza – sempre vana – di un ricordo.

Tutto lo spettacolo dunque si muove agevolmente sulla soglia ovattata tra delirio e ragione, amore ed odio, sonno e veglia, in un tramonto a cui nessuno può sfuggire.

Caligola non uccide solo se stesso, ma l’intero organismo sociale che incarnava. Dopo di lui, la corruzione dilagante e il terrore del giudizio popolare, diverranno i segni stessi dell’avvitamento verticale di una civiltà in putrefazione.

Teatro Abarico
via dei Sabelli 116 – Roma (San Lorenzo)
da giovedì 4 a domenica 14 febbraio

L’ultimo giorno di Gaio Caligola, imperatore
di Helena Hansen
regia Mariagiovanna Rosati Hansen e Matteo Ziglio
con Alessandra Battaglia, Franco Heera Carola, Serge Pirilli, Mariagiovanna Rosati Hansen, Francesca Elisa Molari, Giovanni Di Lonardo
coreografie Franco Heera Carola
scene Accademiastudio
costumi Jaques Sagues
aiuto regia Francesca Cipriani
luci e fonica Alessandro Calabrese