“Il lavoro rende cavoli”

Prepotentemente attuale, magistralmente interpretato, torna La resistibile Ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, in scena fino a domenica 13 gennaio al Giglio di Lucca.

Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi) citava l’insegna posta all’ingresso del campo di concentramento per antonomasia, Auschwitz, ma nell’universo di soprusi del gangster anni 30 Arturo Ui – a capo di un trust del cavolfiore – la scritta non poteva che volgere nel surreale e ridicolmente feroce ”Il lavoro rende cavoli”. Da questa scritta al neon, che campeggia bellamente sul palcoscenico del Giglio, possiamo prendere le mosse – non tanto per consigliare ancora una volta di andare a vedere un monumentale Umberto Orsini attorniato da un ottimo cast dal quale emergono due autentici talenti come Luca Micheletti, nel ruolo di Giuseppe Givola (Joseph Goebbels), e Lino Guanciale, nei panni di Ernesto Roma (Ernst Röhm), quanto per riaffermare la validità non solamente della produzione drammaturgica ma soprattutto del metodo di Brecht.
La resistibile ascesa di Arturo Ui (Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui) è uno spettacolo perfetto per ricominciare a pensare il teatro non sempre e non solo come catarsi riconciliante con l’altro da sé e con il mondo circostante, ma come stimolo a pensare razionalmente le problematiche del nostro tempo e uscire da teatro con l’imperativo categorico di cambiare l’esistente. Una critica cosciente e non un’adesione, quindi, è quella che Brecht pretende dallo spettatore di fronte al personaggio, una razionale distanziazione (da parte del pubblico e degli interpreti) da quanto proposto in scena e mai un’identificazione con valori che è obbligo superare.
Descritto così il dramma epico dell’autore tedesco sembra fonte di noia, rovello per i critici e protervia attorale. Niente di più sbagliato: perché Brecht è capace di suscitare violente passioni intellettuali e amare risate proprio grazie a quel metodo – teorizzato nelle note di Ascesa e rovina della città di Mahagonny (Aufsteig und Fall der Stadt Mahagonny) – che rende, con leggerezza e meraviglia, l’atrocità dell’esistente che ci sovrasta ma che potremmo combattere se solo volessimo.
Pochi esempi tratti dallo spettacolo possono esemplificare il concetto e confermare l’ottima sintonia del regista, Claudio Longhi e del suo cast, con i dettami del maestro tedesco.
L’Arturo Ui con baffetti alla Chaplin (per inciso, Il grande dittatore è del 1940, mentre il testo brechtiano del ‘41) interpretato da Orsini non è quell’Hitler dittatore, virile e feroce, perfetto esempio di estetica in stile Leni Riefenstahl – che oggi decine di documentari falsamente storici continuano a riproporre all’immaginario collettivo – bensì un ometto squallido che, invece di giocare con un mappamondo che alla fine gli “scoppia tra le mani”, si vuole appropriare dell’intero mercato dei cavoli – cibo dei poveri da Berlino a Chicago. E per rendere la sua resistibile – ma anche risibile – ascesa, Brecht pretendeva con il suo metodo – e lo spettacolo fa effettivamente – che si utilizzassero mezzi anti-estetici che non suscitassero risposte emotive ma prese di posizione politiche. Ecco quindi scritte al neon destabilizzanti: se c’è un cesso in scena, siamo nel “gabinetto di Dogsborough” (il Presidente del Reich, von Hindenburg); e ancora, l’uso del gestus al posto della gestualità naturalistica, per rendere visibili al pubblico, in maniera immediata, provocatoria e mordace, le autentiche finalità del personaggio o le implicazioni del suo agire sociale; e poi, quella recitazione che deve risultare “straniata” per suscitare stupore e permettere a chi siede in platea non di identificarsi bensì, ancora una volta, allontanarsi, ad esempio, da uno Givola che piscia sul cadavere di Dullfeet (il Cancelliere austriaco Dollfuss); e infine, quel montaggio delle attrazioni (simile in certo senso a quello di sua maestà Sergej Michajlovic Ejzenštejn, che curiosamente nasceva, secondo il calendario europeo, lo stesso giorno, mese e anno di Brecht, il 10 febbraio 1898) che grazie, per esempio, a stacchi musicali tra la farsa e la peggior rivista ante-guerra, allontana emotivamente lo spettatore dall’azione e gli dà il tempo di riflettere su quanto sta accadendo in scena – come nello stacco in perfetto stile camp di un Roma fantasma che, munito di giarrettiera alla Dr. Frank-N-Furter (The Rocky Horror Piscture Show), profetizza sciagure da padre di Amleto al figlio imbelle.
Il meccanismo, quello dell’autore tedesco e quello proposto in scena al Giglio, funziona perfettamente. Niente compiacimenti poetici alla Strehler, qui si recita Brecht.

Lo spettacolo continua:
Teatro del Giglio
– Lucca
sabato 12 gennaio, ore 21, e domenica 13 gennaio, ore 16.30

La resistibile ascesa di Arturo Ui
di Bertolt Brecht
musiche originali di Hans-Dieter Hosalla
traduzione Mario Carpitella
regia Claudio Longhi
dramaturgia Luca Micheletti
scene Antal Csaba
costumi Gianluca Sbicca
luci Paolo Pollo Rodighiero
altre musiche Fryderyk Chopin, Hanns Eisler, Friedrich Hollaender, Rudolf Nelson, John Ph. Sousa, Mischa Spoliansky, Johann Strauss figlio, Kurt Weill
fisarmonica e arrangiamenti Olimpia Greco
con Umberto Orsini
e con (in ordine alfabetico) Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti, Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati e Antonio Tintis