Esercizi di stile per Emma Dante

In scena, a Bologna, la Trilogia degli occhiali firmata dall’artista palermitana: tre racconti al margine di un passato prepotente.

Uscita dalla Sala Pasolini di Teatri di Vita – finalmente stracolma di spettatori stretti nelle loro poltrone in trepida attesa della trilogia di quella che fu l’enfant prodige de “a terra unni criscinu i limiuna” – mi è tornata sulla pelle la stessa sensazione che provavo quando, nei locali di San Lorenzo a Roma, si accorreva per vedere i contest teatrali. Giovani aspiranti attori, provenienti dalle più disparate scuole di recitazione romane, si sfidavano a suon di improvvisazione, capacità drammaturgica e abilità attorale, in una gara dal ritmo serrato con soli quindici minuti a prova per sbalordire il pubblico ed essere decretati vincitore. In loro, non solo la voglia di mostrare il proprio lavoro e di confrontarsi con gli altri partecipanti, ma anche la speranza che tra gli spettatori ci fosse il famoso occhio del professionista, pronto a raccogliere le energie del talento di turno. In noi, pubblico fedele, la voglia di pensare che si stesse costruendo un teatro del futuro, che in quei locali sotterranei si potesse ricreare una “cantina romana”, complice anche l’atmosfera del quartiere e l’eccitazione giovanile. Usciti dai contest, infatti, si aveva la sensazione di essere stati testimoni del lavoro di creature nate per stare sul palcoscenico, lontane dalla bravura di chi, forte di una sicura propensione naturale rafforzata da anni di esperienze sul campo, sa fare del palco luogo di esperienza pura, ma anche lontani da chi riduceva il palco a mero contenitore di oggetti scenici. Insomma, padroni dello spazio teatrale ma non ancora in grado di pizzicare la pelle e farti sentire il dolore anche dopo essere uscito dallo spazio teatrale.

La Trilogia degli occhiali di Emma Dante mi ha lasciata, purtroppo, senza alcun dolore, nessun livido da portare con me a casa. E anche una certa delusione, perché nessuna mano si è sollevata fantomaticamente dal palco per tentare di arrivare in platea e darmi un pizzicotto (e non credo fossi distratta in quel momento). In me, solo l’assoluta consapevolezza di aver assistito a una regia maestra nell’utilizzo dello spazio teatrale, capace di ricreare atmosfere d’incanto che toccano le corde del pubblico più romantico e il cui sguardo necessita di essere riempito (come conferma il sussulto di stupore proveniente dalla platea quando, durante il terzo spettacolo, la protagonista accende un firmamento di luci sul palco), oltre che avveduta nella scelta degli attori. Questi ultimi fanno sì che i tre spettacoli si reggano in piedi. Esplosivi, ironici, divertenti, riempiono il palco di parole, gesti frenetici, bisbigli e balli con cui raccontano le loro storie.

In Acquasanta, Carmine Maringola è un marinaio napoletano abbandonato dai suoi compagni sulla terraferma. Una vita trascorsa in mare e da questo schiaffeggiato, lega il suo racconto ai ricordi conservati nella memoria e rivissuti nel teatro della sua pazzia. Burattino legato alle ancore di quel passato, si muove al servizio di un marionettista immaginario, vittima di un’esistenza senza scampo che, muovendo al riso, non lascia altro che tristezza.

Ne Il castello della Zisa, storico quartiere popolare palermitano, si concentra un attimo della storia di Nicola, accudito da due suore che tentano in tutti i modi di farlo uscire dallo stato catatonico in cui è caduto da quando è stato strappato alle cure della zia. Una scena convulsa, dove i bisbigli e i gesti delle suore iperattive sono sintomatici della costanza dei tentativi (non riusciti) di far parlare Nicola, la cui voce esplode per qualche secondo – suscitando lo stupore delle donne – per poi essere inghiottita nuovamente dal suo corpo, che cade a terra sfinito, distrutto. A prescindere dall’abilità tecnica di costruzione attorale e scenica, questo secondo spettacolo pare non servire che a colmare lo spazio tra il primo e il terzo: privo di uno sviluppo che vada in qualsivoglia direzione, lascia interdetti, con un sapore in bocca di incompiutezza – come quando, lontani dall’essere sazi, non ci viene dato altro da divorare.

Un tuffo nel passato di una coppia, al contrario, è quello di Ballarini, ultimo spettacolo della trilogia. Un viaggio a ritroso, dalla vecchiaia alla giovinezza, attraverso il quale si ripercorrono i momenti più belli – e canonici – della vita di due persone, che ballano sulle note più indimenticabili della storia della musica italiana. Una rassegna, più che un racconto forse, che termina con la malinconia del finale migliore, dove la solitudine trova uno spazio ristretto nel ricordo della felicità di una vita insieme.

Nel complesso, tre storie in cui il passato, visto attraverso la lente degli occhiali – che danno il titolo all’opera ma che non sono più di un cavillo, un oggetto onnipresente, e non un filo conduttore vero e proprio con qualità semantica – si impone prepotentemente al presente, nelle forme del ricordo felice ma malinconico, a volte importuno e deviante, in spettacoli che sanno di stallo, di assestamento dopo la scossa o di esercizi stilistici dell’artista che si sta preparando a regalarci molto di più.

Lo spettacolo andato in scena:
Teatri di Vita

via Emilia Ponente, 485 – Bologna

La Trilogia degli Occhiali
regia Emma Dante
Acquasanta
con Carmine Maringola
scene Emma Dante, Carmine Maringola
costumi Emma Dante
disegno luci Cristina Fresia
Il castello della Zisa
con Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier e Onofrio Zummo
scene Emma Dante e Carmine Maringola
costumi Emma Dante
disegno luci Cristina Fresia
Ballarini
con Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri
scene Emma Dante e Carmine Maringola
costumi Emma Dante
disegno luci Cristina Fresia