Esperienza

vascello-teatro-roma-80x80L’Odin Teatret in trasferta a Roma sbarca al Teatro Vascello giungendo da lontano, nello spazio e nel tempo.

Dicono gli accademici che esiste il teatro tradizionale composto da una narrazione, un esecuzione e un pubblico, e il teatro di ricerca, immancabilmente critico, reticente, sperimentale. Se da una parte il teatro classico è per definizione immortale, nonostante sia sbranato da altri mezzi – come la televisione che lo ha fagocitato negli interminabili sceneggiati o in fiction orrende – dall’altra l’innovazione ha due caratteristiche imprescindibili: deve essere esclusiva (non può essere presa in prestito da qualcuno che non ne sia autore) e deve essere effimera in quanto la reiterazione ne condanna l’efficacia. Panta rei nella creazione sperimentale.

Esiste poi un Terzo Teatro, alternativa definita nel 1976, ma elaborata negli anni precedenti, da uno dei più grandi registi e teologi del teatro contemporaneo, Eugenio Barba. Questa “terza via” ha trovato forma nell’Odin Teatret, un laboratorio internazionale di artisti che rompono gli schemi del canone e operano un’introspezione collettiva, la pongono in atto. Era il 1969, anno di rivolta, quando il pubblico imparava il nuovo linguaggio antropologico e spaziale in Ferai. Nel corso degli anni le esperienze dell’Odin si sono rafforzate e arricchite distinguendosi come materia unica e indipendente, in grado di sparigliare il dualismo tra spettacolo e spettatori, di articolare una figura nuova di attore, autentico solo quando convinto e quindi partecipe fin nella spina dorsale del senso profondo di ogni movimento, di ogni parola o canto su scena aperta.

La programmazione del Vascello di Roma, con le antenne sempre sintonizzate a cogliere il meglio della scena contemporanea, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di ospitare la compagnia stanziata a Holstebro, in Danimarca in trasferta a Roma e fino al 17 marzo sarà in scena La Vita Cronica. La lunga attesa per fare sala si comprende una volta giunti davanti all’uscio in fondo alla platea. Si entra scaglionati in un teatro vuoto, poco illuminato. La fila di schiene davanti a noi all’ingresso sembra sparita. Presto però si raggiunge il palcoscenico, si sale, per svoltare sul retro, accolti da operai che impartiscono le direttive e ottimizzano le postazioni, due gradinate l’una di fronte all’altra e distanziate da un pavimento in legno, occupato da una bara accanto a un corpo steso, entrambe ricoperti da lenzuola bianche. Nel corso della rappresentazione, si sussegue una quantità innumerevole di eventi, spesso supportati da un magistrale effetto luci, da canti e musica dal vivo. Gli attori prestano i loro corpi a rappresentare brandelli di personaggi, a tratti decisamente umani, a tratti allegorici e distanti. Non esiste una trama, nel senso più semplice del termine, ma un ritmo frenetico e una serie di quadri scenici entro i quali si cerca disperatamente di trovare un raccordo. Non si coglie altro che l’armonia estetica. Il resto è oscurato dal dubbio di non avere gli strumenti per arrivare a comprendere. Così si resta avvinti nella malia di corpi nello spazio, orizzontale e verticale, solitari o in gruppo. Si colgono frasi e gesti particolarmente poetici e si apprezza la capacità di ogni interprete di rendere credibile o evocativa una situazione surreale. Sfugge però il senso, perciò la volontà di lasciarsi guidare, di sentirsi parte integrante di un avvenimento, col cuore aperto ad accogliere ogni stimolo, lascia il posto a qualcosa di simile alla fatica. Davanti alla montagna di enigmi simbolici si sceglie un masso sufficientemente comodo giù a valle sul quale accomodarsi per osservare con meraviglia e rispetto l’Olimpo degli intellettuali, detentori del senso e compilatori di un codice della sensibilità. Ammessi o rimandati.

Eppure il giorno dopo sulle spalle si avverte il peso delle impressioni avute la sera innanzi. Resta la curiosità di cercare spiegazioni, informazioni. Dedicato ad Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, giornaliste russe uccise pochi anni fa per aver difeso i diritti umani del popolo ceceno, La Vita Cronica intreccia le vite di due vedove, la prima è una rifugiata cecena vestita di tessuti colorati che emigra dal suo paese dopo la morte del marito, la seconda è una vedova di un combattente basco, una figura austera in nero che ha lavato i cinque cadaveri delle persone che ha amato. Una casalinga rumena depressa e isterica, ossessionata dal cibo e dalla pulizia. Una Madonna Nera ancestrale. Un avvocato danese blaterante, un musicista rock invecchiato dentro a uno stereotipo. Un ragazzo colombiano in cerca del padre scomparso. Una violinista di strada e due mercenari incappucciati e muti, pronti a interrompere la scena, a spezzare gli entusiasmi. Ruoli assegnati senza distinzioni di sesso. L’atmosfera è cupa, avvolta nell’ombra della guerra e di chi rompe il silenzio per raccontarla. Gli uomini con le loro vite sono travolti dall’insensatezza, in balia del destino, come carte smazzate su un tavolo da gioco. L’acqua, il bene più prezioso, è cristallizzata in un blocco di ghiaccio appeso a un gancio da macelleria. La stessa acqua che la Politkovskaya riuscì a far portare agli ostaggi del teatro Dubrovka. Una guerra che non esplode, ma silenziosamente sottrae un tributo di morti, dei quali rimane soltanto la memoria. “Memorial” è il nome dell’associazione umanitaria alla quale collaborava la Estemirova, che offriva assistenza legale alle famiglie degli oltre 4.000 scomparsi durante la seconda guerra caucasica. Come i milioni di desaparecidos sudamericani. Un dolore che attraversa il tempo e i continenti, da Oriente a Occidente, seguendo il tintinnio delle monete, gli interessi economici di cui siamo vittime sacrificabili. E quindi la critica al nostro tempo viziato e ingordo, fatto di solitudini e frivolezze.

Lo spettacolo introduce anche il tema della censura e quindi la libertà di espressione sia personale, sia artistica alla quale si cerca di porre impedimento o almeno un freno. Ogni dettaglio della messa in scena appare vivido all’interno di un ipertesto nel quale si scartano pagine e ipotesi. E mentre le riflessioni si accavallano,tornano alla mente gli applausi, anzi li senti nelle orecchie, applausi scroscianti, ma con gli occhi pieni di lacrime.

photo by tommy bay
photo by tommy bay

Lo spettacolo continua:
Teatro Vascello
via Giacinto Carini, 78 – Roma
fino a domenica 17 marzo 2013
dal martedì al sabato ore 21.00, domenica ore 18.00 (lunedì riposo)
durata 65 minuti senza intervallo
Una produzione Nordisk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La Abadía (Madrid), The Grotowski Institute (Wroclaw) presentano

La Vita Cronica
di Ursula Andkjær Olsen e Odin Teatret
regia di Eugenio Barba
con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley
dramaturg Thomas Bredsdorff
consulente letterario Nando Taviani
disegnatore luci Odin Teatret
consulente luci Jasper Kongshaug
spazio scenico Odin Teatret
consulente spazio scenico Jan de Neergaard, Antonella Diana
costumi Odin Teatret, Jan de Neergaard
direttore tecnico Fausto Pro
assistente alla regia Raúl Iaiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf
ODIN TEATRET A ROMA
16 febbraio – 17 marzo
Spettacoli, dimostrazioni, seminari pratici e master class, conferenze incontri e baratti, film e presentazioni di libri