Inventare il comune per sovvertire il presente

Là, sulle pendici del Subappennino Dauno, si erge un borgo millenario fondato da uomini caparbi vogliosi di opporre resistenza allo spirito del tempo. Nella stessa città, undici anni fa, dei giovani altrettanto caparbi si rifiutarono di essere uomini-cometa e decisero di brandire spade d’acqua per «richiamar nel mondo/esuli pensieri e cuori abbandonati». Ha così inizio l’edizione 2016 del *Festival *Troia *Teatro – Tuttun’altra Troia, che sommergerà le vie del borgo dal 3 al 7 agosto.

Camminando verso controra per le viuzze strette di un abitato arroccato in cima a una collina sorprendentemente ventosa, noti subito che i pochi impavidi addossati alle bianche pareti per rubare il refrigerio della calce e dell’ombra mormorano concitati nonostante l’età. Avvicinandoti, capisci il motivo di tanta eccitazione: dopo dieci anni di lavoro indefesso sul territorio, i «figli di Troja» (UGT, Teatri35 e A.c.t! Monti Dauni) sono riusciti a incendiare gli animi nodosi degli abitanti di questo borgo pugliese a tal punto da far brillare gli occhi a un gruppo di anziani neanche fossero dei bambini con il loro nuovo sacco di biglie. Hanno in mano un manifesto del festival.

Il teatro è, tra le tante cose, anche movimento, e l’FTT2016 riesce a smuovere un’intera città, ridestandola dal suo torpido avvizzimento, spezzando così l’individualismo a cui si viene costretti, ora più che mai. Il semplice fatto di condividere un luogo che, per qualche giorno, sarà votato al baratto di sogni, è, di fatto, già di per sé un atto sovversivo e il primo giorno dell’impegno alla dissidenza culturale di questi troiani (con la correità del sindaco, dell’assessore alla cultura, dello sponsor principale e di uno degli altri due sostenitori locali), comincia anche con un sentito addio a chi del proprio territorio aveva fatto una questione personale, sospingendo ancor di più le vele di un vascello ormai pronto a salpare.

Levata quindi l’ancora, si parte con il primo dei sette spettacoli in concorso, tutti uniti dal fil rouge dei sentimenti, descritti come quel legame «che genera azione», come «la consapevolezza dei propri atti, […] il movimento del sentire, […] ciò che unisce e divide, […] ciò che separa, […] ciò che accomuna».

E a proposito di poesia (intesa come poiesi di senso e idee), L’albero di Nicola Conversano si dimostra subito essere uno spettacolo dalla forte valenza immaginifica. Nel suo The Songlines, Bruce Chatwin parla di “vie dei canti”, «strade che corrispondono a note di un pentagramma in cui ogni melodia, una volta eseguita, evoca un pezzo di mondo e ne rende possibile l’esistenza». L’attore-contadino andriese, evocando con calcolata fisicità e chiacchiera spigliata il tanto vasto quanto mistico Sud, esegue un lamento da prefica, offrendo le proprie esperienze da bracciante in una terra al contempo nera e bianca.

«Me ne voglio andare perché nun ja fazz cchiù», ammette quest’uomo, succube del ricatto del lavoro e del tempo. Tra fattorie eoliche, impianti solari e «sfruttamento del paesaggio», infatti, il suo Sud è cambiato. Ma cos’è il Sud? È Sud un luogo da cui si parte molto più di quanto non si arrivi.
C’è crisi, certo, ma è una crisi d’appartenenza, d’inadeguatezza e di senso. Snaturando l’essenza stessa di un albero d’ulivo ripiantato nel bel mezzo di una piazza di città ci si ritrova a vivere una vita morta, e a morire come i non nati, senza lasciare alcuna traccia. E allora gambe in spalla e pollice verso (l’alto): rotta per Roma.

Vincitore del premio Apulia Fringe Festival 2015, lo scritto di Conversano (rifinito da Michele Santeramo) sembra inserirsi nel filone di un teatro volto a descrivere le pene dello sradicamento geografico, causa di una malinconia generazionale in questo caso meridiana che è ormai facilmente rintracciabile negli sguardi di tutto il mondo. Nonostante, quindi, l’attualità del tema, la padronanza tanto del mezzo attoriale quanto di quello agricolo e le brillanti trovate antropo-zoologiche (attenzione ai gibbùni), L’albero si limita ad aggiungere nuova legna al fuoco della nostalgia canaglia. Sarebbe bello sapere anche cosa si prova a scegliere di restare, superando la paralisi joyciana e creando un mondo fondato sul coraggio, o addirittura su quali rovine è costretto a costruire colui (o colei) che torna. D’altronde, però, «partono quelli che non si sentono eroi» e l’eroismo è un sentimento che scarseggia.

E di eroi e altre nobiltà d’animo parla il secondo spettacolo in concorso per il FTT2016, firmato Nastro di Mobius. La giovane compagnia calabrese, diretta da Saverio Tavano, mette in scena una tragedia contemporanea in salsa regionale, riverberando involontariamente quell’impulso al movimento accennato sopra e inteso come unico balsamo alla stasi mentale. La storia è quella d’u’ professuri, un insegnante di educazione fisica dalle velleità profetiche che dedica tutta la propria vita a darsi un senso tramite gli altri. Il tema identitario, quindi, torna a farsi sentire, declinandosi qui in termini forse più semplici e in qualche modo anche divulgativi.

A Roma, in via di San Gregorio, di fronte all’ingresso al Palatino, una targa commemorativa che osserva silenziosa il passaggio di migliaia di turisti ogni giorno recita così: «ad Abebe Bikila, maratoneta d’Etiopia vincitore della maratona della XVII Olimpiade. Sulle strade olimpiche di Roma raccontò al mondo il cuore e l’orgoglio della sua terra». Creando un ponte narrativo decisamente interessante, Tavano fa parlare i suoi attori di ereditarietà, di sogni e di fede, tendendo un filo tra i piedi scalzi di Bikila e la marcialonga di San Francesco di Paola. La giovane marocchina Soukaina, detta Souké, che ha visto sabbia solamente sul litorale di Lamezia Terme e non è mai stata nel deserto “di casa sua”, si ritrova a fungere da capro espiatorio razzializzato per riscattare il passato del professore, segnato dal lungo braccio della mafia.

«Per fare un’opera d’arte bisogna passare da una tragedia», sentenzia il calvo “spara-minchiate”, chiosando così la sua filosofia votata al sacrificio, al sudore e alle suole consumate. La commistione anagrafica e geografica dei degli attori in scena crea un cortocircuito temporale decisamente suggestivo che, però, sembra posizionarsi, come diceva una personalità affatto sobria, «a Sud di nessun Nord». Tralasciando, infatti, l’intelligente uso del dialetto (mai esagerato), il forte ricorso al proverbio e alla facile sapienza popolare danno all’opera un’eco semplicistico alla Don Matteo, trasmettendo di fatto un messaggio carico di valori a corto raggio che non riescono ad andare oltre al “limite” regionale. Se è vero che nemo propheta in patria, è altrettanto vero che nulla patria in propheta, non c’è (o non dovrebbe esserci) nessuna patria nel profeta.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del *Festival *Troia *Teatro – Tuttun’altra Troia
Palazzo Vescovile
piazza Monsignor de Santis – Troia
mercoledì 3 agosto
ore 21.30

L’albero
di e con Nicola Conversano
collaborazione alla scrittura Michele Santeramo
regia Vittorio Continelli

Chiostro San Benedetto
piazza Giovanni XXIII – Troia
mercoledì 3 agosto
ore 22.55

Nastro di Mobius presenta
La marcia lunga
scritto e diretto da Saverio Tavano
con Achille Iera, Soukaina Maktoum
aiuto regia Fabio Truzzolillo