Ritratti d’autore

Al Teatro de’ Servi le Cattive Compagnie portano in scena 39 scalini, una commedia giallo-comica dalle tinte noir, omaggio al gigante Hitchock. Sul palco un thriller scoppiettante e dinamico con un ritmo incalzante; omicidi, colpi di scena e inflessioni dialettali si mescolano in un intrigo carico di tensione e risate. Una sceneggiatura brillante e quattro eccezionali interpreti animano una scenografia semplice ma efficace per uno spettacolo che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all’ultima battuta. Ne abbiamo parlato con il regista, Leonardo Buttaroni.

Il romanzo di John Buchan nacque come thriller basato su avventura e tensione, mentre il riadattamento di Alfred Hitchock assunse sfumature più ironiche (per esempio aggiungendo personaggi femminili per dare un tocco di sensualita e umorismo alla rappresentazione). Patrick Barlow si ispirò proprio al film di Hitchcok portando nei teatri uno spettacolo divenuto di grande successo. Per il vostro riadattamento avete scelto di rimanere comunque fedeli al testo iniziale di John Buchan: poca audacia o piena assonanza con le caratteristiche della vostra compagnia, che segue il filone dell’ironia, del sarcasmo e del cinismo?
Leonardo Buttaroni: «Questo è un format, la cui fedeltà al testo e alle trovate sceniche è, in realtà, ben lontana da quella del testo originale di John Buchan e soprattutto dalla messa in scena londinese. Siamo partiti da quell’adattamento e lo abbiamo portato ai nostri ritmi e al nostro modo di fare teatro, basti pensare che l’originale dura circa trenta minuti in più pur avendo le stesse scene. Il cinismo, il sarcasmo e l’humor nero, poi, fanno sicuramente parte delle nostra cifra comica e, forse, si può dire che sotto questo aspetto siamo prossimi agli inglesi».

Nello spettacolo i personaggi sono (ben) caratterizzati e diversificati tra loro piu da accenti o difetti di pronuncia che dai costumi. La scelta di introdurre dialetti italiani nell’adattamento di un testo inglese è stata semplicemente dettata dalla necessità di sostituire gli originari localismi linguistici, oppure da una vostra precisa scelta registica (magari dalla volontà di aumentarne il tasso di comicità)?
LB: «Il testo prevede una serie di dialetti sia per caratterizzare i personaggi che per scatenare ilarità. Portandolo in Italia, abbiamo dovuto adattarlo, ma abbiamo evitato l’uso di dialetti veri e propri, scegliendo per lo più delle cadenze che raggiungessero lo stesso risultato. Ritengo, tuttavia, che la forza di questo spettacolo risieda più sulla comicità di azione che di parola».

Una scenografia estremamente essenziale, in cui a esaltarsi sono l’istrionica abilità degli attori di muoversi in scena e “cambiare ruolo” agli oggetti, si coniuga a un impatto fisico palpabile sul pubblico. È una tecnica già sperimentata dalla compagnia e/o dalla regia, o è stata applicata unicamente alle esigenze di questo spettacolo?
LB: «Ecco una delle differenze dall’originale. Nell’allestimento di John Buchan gli attori giocano in una scatola nera portando oggetti in scena. Noi, invece, abbiamo optato per togliere le quinte e far vedere tutto quello che avremmo usato e tutto quello che avremmo indossato, al fine di far chiedere al pubblico: ora cosa ci faranno con quell’oggetto? Abbiamo sfruttato tutte le nostre capacità istrioniche e abbiamo cercato di far rivivere quella sensazione che si ha da bambini, quando un qualsiasi oggetto si può trasformare e – per esempio – una semplice bottiglia può diventare Exalibur. Quello che sperimentiamo come compagnia è la possibilità di lavorare su sceneggiature di film, forse perché quello stile di regia si avvicina molto al nostro modo di fare. Per il resto, è tutto figlio di sperimentazioni e del nostro desiderio di affrontare nuove sfide».

Una curiosità finale sui quaranta personaggi interpretati solamente da quattro attori, quindi, tutti al maschile. Quale significato attribuite a questa scelta: modo per estremizzare la portata comica dell’adattamento, semplice necessità dettata dall’indisponibilità di attrici o what else?
LB: «È colpa mia (ride, ndr). Leggendo sui 39 scalini ho scoperto che la prima versione era fatta da quattro uomini e la possibilità di far fare le donne agli uomini mi ha sempre intrigato. Questa scelta non va sempre bene in assoluto: può portare uno svantaggio con il rischio di scimmiottare il ruolo femminile; oppure, a patto di pensarlo personaggio e non cadere negli eccessi della macchietta, può determinare un grosso vantaggio e rendere un allestimento più divertente e intrigante».

Articolo scritto all’interno del percorso di Alternanza Scuola Lavoro condiviso tra l’Associazione Culturale Persinsala e il Liceo Terenzio Mamiani di Roma