Errori di traduzione

teatro-verdi-pisa-80x80Arriva al Teatro Verdi di Pisa Les Vertiges d’Hitchcock – tra fedeltà e perplessità.

È un quesito immortale, un eterno ritorno. Quali sono le meccaniche dell’arte? L’arte è alchimia, per come la conosciamo. Ogni opera si manifesta come un processo chimico casuale, frutto di componenti vergini, folli o visionari. A volte funziona, a volte no. Talvolta senza fornire spiegazioni.

Les Vertiges d’Hitchcock di Emilio Calcagno, limpido come uno specchio, si srotola sulla ribalta dal preludio all’epilogo e non fa una grinza. Tutto è perfetto, impassibilmente britannico come il regista che cita.

Cionostante, non ha funzionato a pieno. Come lo si spiega?

Lo spettacolo è andato in scena al Verdi di Pisa giovedì 4 febbraio. Il palcoscenico, ancora memore del sangue di Tosca X, è stato ibernato dal bianco e nero. Ai corpi dolenti vinti dall’ira si è sostituito il movimento rigido, perfettamente controllato della Compagnia ECO.

Emilio Calcagno, che proprio quest’anno presenta, con Catania Catania, un’ultima opera dal sapore autobiografico, ambisce con Les Vertiges d’Hitchcock a tradurre in danza l’universo dell’omonimo regista. Ciò implica diverse aspettative, tra le quali la piena esplorazione del mondo del maestro del thriller, senza limitarsi alla superficie. Tradurre, sì, ma che lo spettro dei termini sia vasto.

Questa è la prima criticità. La seconda riguarda la conversione dalla pellicola alla carne, laddove la parola si fa gesto. Come tradurre in forme corporee un processo logico?

L’opera di Calcagno gioca sulla suspence, caratteristica prima del cinema hitchcockiano. E presenta una struttura lenta, senza picchi emotivi, in perenne ascesa ma mai al culmine di sé. È come se Tosca X avesse, con la sua enfasi, prosciugato le emozioni dei successori. Non c’è palpito sul palco di Les Vertiges, che sbianca e arrossa a seconda delle luci, nette e corrette, come la coreografia. Quest’ultima, in particolare, palesa il senso crescente di paranoia e lo fa usando intrecci vorticosi che, sebbene suggestivi, si ripetono in maniera assillante su schemi invariabili. E il passo a due situato a metà spettacolo, con una donna che si getta sul partner più e più volte, ne è l’esempio. La lentezza, l’imprecisione di alcune figure di gruppo non soddisfano in pieno l’osservatore. Tuttavia, la monotonia è spezzata dall’evocazione, da una tensione interna che allarma e fa presa sulla dimensione in-consapevole del pubblico presente.

Altra caratteristica prettamente hitchcockiana è la claustrofobia. Lo spettacolo sa concretizzare questa sensazione con una scenografia nera, illuminata a chiazze come una strada notturna. Non a caso, con l’apertura delle quinte nell’ultimo quadro, si ha l’impressione di uscire indenni da un’impresa speleologica. Buona, anche se un poco scontata, l’idea della presenza della cinepresa e degli strumenti registici a contornare la danza – così come il cambio d’abiti a scena aperta con l’espediente del camerino hollywoodiano. La mobilità dell’obiettivo e del cameraman, che si insinuano come un sottomarino giocattolo, potrebbero alludere alla tecnica dell’occhio-schermo, che ha reso innovativi film come Psycho – la macchina da presa esitante, scostante. Bello il gioco di light designing, in particolare quando la luce è proiettata sul pubblico. Del resto, nessuno si accorge di quanto opprimente sia il buio che ha attorno, finché qualcosa non si tenta di illuminarlo.

L’espressività di un oggetto innocuo, banale (come la scala su cui gli interpreti danzano lentamente, con fare instabile), è resa da un’inquieta enfatizzazione dello stesso. In elementi piccoli, come il telefono o la borsetta, si può individuare quel depistaggio emotivo che è il McGuffin – espressione coniata proprio da Hitchcok, con cui si suole trovare un espediente insignificante che renda movimentata la trama.

Dal punto di vista musicale emerge un’ulteriore criticità – laddove, escludendo felici brani ridisegnati in chiave techno, si ha a che fare con un’interpretazione ipnotica e minimale, che sceglie di non imporsi e di rendere perfettamente udibile il passo degli interpreti sul palcoscenico. Eppure ci si aspettava altro, considerando che, nel cinema d’autore, la musica è fautrice e sostegno dell’azione.

Una parola di merito spetta agli interpreti, mai distratti o compiaciuti del loro valore, ma impigliati nella sinossi paranoica della coreografia. Emerge su tutti la danzatrice Mira Kang, la cui tecnica tagliente e impeccabile non oscura l’emotività intrinseca del suo corpo minutissimo. La solida preparazione accademica emerge prepotente, anche se volentieri la perfezione del gesto si lascia fuorviare da movimenti che paiono immediati, e non frutto di prove e decisioni a priori. La sua sensualità scattosa, meccanica, poi nuovamente fluida, sempre pronta a spezzettarsi in figure a-logiche, dipinge bene l’inconscio collettivo e privato, morboso e oppressivo, di film come Vertigo o Gli uccelli. Una fisicità, la sua, che s’incastra con l’atmosfera delittuosa e noir, ricalcata con venatura da “interni d’albergo” più statunitense che anglosassone (si notino anche i richiami a Hollywood), in cui risiede l’impronta di Calcagno: quel qualcosa di indefinito e inquietante che fa pensare a certi racconti di J.D. Salinger, o a una trama di T. Pynchon.

Les Vertiges d’Hitchcock, devoto nell’osservazione dell’universo del regista, reca forse il peccato di troppa fedeltà. E così, paradossalmente, in arte è nel torto chi non tradisce. Tradurre in danza un’opera cinematografica è possibile, ma non senza scendere a compromessi. E una forma artistica quale il balletto, che necessita di vibrazioni e impulsi, non può vivere a lungo di attesa, fosse anche un’attesa densa di suspence. La fedeltà soffoca, in parte, l’alchimia.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Verdi – Pisa
giovedì 4 febbraio, ore 21.00

Compagnia ECO presenta:
Les Vertiges d’Hitchcock
di Emilio Calcagno
assistente alle coreografie Alexandre Castres
creazione musicale Aurélien Richard
danzatori Benjamin Forgues, Dorothée Goxe, Mira Kang, Leonardo Maietto e Youlia Zhabina
disegno luci Baptiste Dalestre e Nicola Lemoine