I mangiatori di tempo

Ancora una volta la Piccola Compagnia Dammacco fa di marginalità virtù e offre, brevi manina, una denuncia componibile solamente da chi sta fuori. Fuori da sé e fuori di sé, slogato in un corpo troppo minuto per contenere tutto questo disagio, tutta questa irrequietezza. L’inferno e la fanciulla, in scena a Teatri di Vetro 10.

Immaginate una brocca di latte. Bianco, puro, a momenti invitante. Immaginate ora una goccia di sangue vermiglio, ardente, che cade in quella brocca: una mostruosità. La repulsione è immediata, viscerale. L’accostamento è sbagliato, scomodo. Proprio come l’infanzia e l’averno.

Nato prima come studio teatrale indipendente e riplasmato poi a quattro mani dalla lenta ma inesorabile accoppiata Balivo-Dammacco, L’inferno e la fanciulla pare seguire il solco stilistico tracciato sin dal 2009 di un teatro fatto di poesia e di visioni a metà tra l’onirico e il cauchemar. La ragguardevole vocina dell’infante, grave quanto la più antica delle pietre, anima con afflato allegorico un corpicino valgo e avvoltolato posto dinnanzi alla più ardua delle gesta: il primo giorno di scuola. Partendo quindi da «tematiche, rovelli, problemi» contemporanei, la drammaturgia si «disistrizza» con la stessa classicità di un gomitolo di lana a Creta e parte subito in quarta per affrontare, forte della disarmante semplicità del logos parnasico, l’inferno che è la consapevolezza – dell’essere imberbe – di essere.

Il sorriso «al latte» (sic!) della fanciullina nasconde, infatti, una voragine plutonica che si apre verso l’interno non appena questa prende coscienza, ahilei, dell’altro. L’altro che gioca a fare la mamma, la donna, l’adulto, con tutti i crismi della società affatto ideale nella quale siamo capitati. Confermata la propria avulsione dai più in seguito a una prima, madornale, svista amorosa, la magistrale Balivo, ora incerta tra i suoi primi passi infantili ora salda nella propria diabolica alterità, incede sola e solubile in un mare di banalità, di aspettative tradite e di punizioni immeritate, annaspando per non sciogliersi tra le fiamme dell’aldiquà. Perché «l’inferno è la fanciulla», è «questo sapere di dovere chiedere il permesso e non volerlo», è il patimento di non conformarsi, di non volersi stingere e farsi sbiadire dall’opacità della massa che diviene, suo malgrado, umana, adulta, malata.

E poi viene il linguaggio. O meglio, il linguaggio c’è sempre, ma ce ne si accorge a poco a poco. Le parole di Dammacco non sono lo scimmiottare insulso di un ba-ba-bambino ancora fissato con i propri orifizi, bensì la raffinata costruzione di un argot a metà tra l’ingenuo e l’erudito, tra il pietoso e lo spietato, quasi fosse possibile mettere per iscritto il suono delle ossa che crescono. A un certo punto, però, il sangue arriva in fondo alla brocca e il latte, ormai spurio, diventa difficile da bere, proprio come l’opera della Piccola Compagnia. Il viaggio di pieghe sinuose tra mondi dalle densità contrastanti culmina, dopo dieci quadri, in uno sbandamento. La parabola, giunta al vertice, prosegue per la sua strada speculare e si perde in un nuovo inizio, tra ceneri e ascensori, sparendo dietro la cortina del fumo che si leva fitto per il troppo bruciare. Non c’è, parafrasando la poetessa polacca, una mano invisibile che fa il suo dovere e ci stringe alla gola.

Il resto è una titillante danza sghemba di «deliziose scarpette blu» che calpestano l’eternità.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del festival Teatri di Vetro 10
Carrozzerie n.o.t.

via Pandilo Castaldi 28/a – Roma
venerdì 16 settembre
ore 22.30

L’inferno e la fanciulla
con Serena Balivo
ideazione e drammaturgia Serena Balivo, Mariano Dammacco
regia Mariano Dammacco
immagine di locandina Stella Monesi
produzione Piccola Compagnia Dammacco
con il sostegno di Campsirago Residenza

primo studio vincitore del Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro
spettacolo finalista al Premio In-Box Blu 2016