L’opera globalizzata

piccolo-teatro-milano-80x80Sessant’anni dopo la celebre regia di Giorgio Strehler, il Piccolo teatro di Milano presenta una nuova edizione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill, affidandola a Damiano Michieletto.

 L’Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) di Bertolt Brecht e Kurt Weill in Italia è tutt’uno con il nome di Giorgio Strehler, che al Piccolo Teatro ha firmato due gloriose edizioni dello spettacolo: una nel 1956 (quando ricevette l’investitura ufficiale dello stesso autore, che venne a Milano a seguirne le prove) con Milly e una seconda nel 1973 con Gianrico Tedeschi, Domenico Modugno e Milva. Pur non essendoci una documentazione video (rimangono a testimonianza le bellissime foto di Ugo Mulas della prima edizione e un documentario Rai della seconda) il testo di Brecht è stato sempre considerato un must del Piccolo Teatro di Milano tanto da scoraggiare altre versioni; solo recentemente si sono viste due produzioni italiane (firmate da Tato Russo e da Luca De Fusco) non significative. L’Opera d’altra parte richiede un notevole sforzo produttivo, attori che sappiano cantare (e non cantanti lirici che sappiano recitare) e una piccola orchestra. Giustamente il Piccolo ha voluto infrangere il tabù e allestirne una nuova edizione, affidando la direzione a Damiano Michieletto, in virtù della sua ricca esperienza nel campo della regia musicale (ha da poco ricevuto il premio Olivier Award per la messa in scena di Cavalleria rusticana Pagliacci alla Royal Opera House di Londra) e all’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi la parte strumentale. Quale migliore omaggio alla propria tradizione che permettersi un tradimento in sede?
Fatto sta che ognuno di noi, anche se per motivi anagrafici non ha visto nessuna delle due versioni strehleriane, si reca a teatro con un suo Brecht privato – sarà una caricatura di Grosz, saranno i capelli alla Louise Brooks di Milva e soprattutto la sua voce – c’è sempre un’immagine o un ricordo pregiudiziale. Michieletto fa piazza pulita di tutto, tenendo per fermo solo il messaggio sociale (“Cos’è più grave fondare: una banca o svaligiare una banca?”) e aggiornando la classe degli umili nei migranti della più dolorosa contemporaneità.
Per l’occasione, e con risultati efficaci, commissiona una nuova traduzione a Roberto Menin e traduce da se stesso i celeberrimi songs. Decide poi di decostruire il testo. Si parte dalla fine: il bandito Mackie Messer è sotto processo e condannato a morte. Sapremo quel che è accaduto grazie alle deposizioni dei testimoni e dell’imputato. Siamo infatti in una grande aula di tribunale, circondata da altissime grate, una grande gabbia in cui tutti i personaggi sono rinchiusi (firma la scenografia Paolo Fantin). Sfilano così davanti ai giurati le scene in cui si racconta come il bandito Mackie Messer abbia sposato Polly, figlia del re dei mendicati Jonathan Peachum, e come il suocero abbia deciso di vendicarsi, facendolo arrestare ben due volte. La prima riesce a evadere grazie alla sua amicizia con lo sceriffo Jackie Brown, la seconda è a un passo dalla forca: una valigetta di svolazzanti banconote corrompe ancora una volta i tutori dell’ordine (il lieto fine voluto da Brecht è motivato realisticamente, mentre nel testo si parla di un messo a cavallo che porta la grazia della Regina, soluzione geniale nella sua assoluta improbabilità).
La scelta di svolgere tutta la storia in un’aula di tribunale sembra una innocua idea di regia, ma in realtà condiziona pesantemente tutto lo spettacolo: non tanto per le incongruenze che si vengono a creare tra quello che i personaggi dicono e il contesto in cui lo dicono (in questi casi ci si stupisce solo che si dicano certe cose durante un processo) quanto per il fatto che tutte le scene si svolgono sempre con lo stesso sfondo scenografico e questo è noioso. Cambiano di posto i seggi dei giudici, il tavolo dell’imputato, l’alto scranno del giudice (interpretato di volta in volta da un diverso personaggio, Macheath compreso, per ricordarci che siamo tutti giudici, tutti corrotti e corruttori), si aggiunge un po’ di mobilio, qualche oggetto timidamente kitsch, ma tutto rimane sempre uguale. Michieletto poi fa repulisti di cartelli e scritte brechtiane e cerca erroneamente di creare una continuità tra recitato e cantato, sfuggendogli che la forza espressiva e propulsiva del testo nasce proprio da questo contrasto. Die Dreigroschenoper non è un semplice adattamento della Beggar’s Opera di John Gay, ma un voluto pastiche corrosivo (Brecht non si risparmia neppure una poesia di Villon), fortemente critico nei confronti del teatro borghese. Si aggiunga che anche Gay aveva scritto una parodia dell’opera italiana e quindi ci troviamo in una parodia al quadrato, che si fa beffe delle aspettative dello spettatore. La strada scelta da Michieletto è invece quella della normalizzazione.
Per paradosso, lo straniamento previsto si genera da quello che vediamo sulla scena (un processo in abiti moderni) e i songs che rimandano alla Germania della Repubblica di Weimar, di cui qui non c’è traccia, ma che non si riesce a cancellare nella memoria dello spettatore. L’operazione registica cancella la storia e ci offre un prodotto culturale neutro, quello che potremo definire uno spettacolo ai tempi della globalizzazione, buono per tutte le platee.
Gli attori si adeguano al progetto di regia. Marco Foschi è un Mackie Messer giovanilistico rispetto alla tradizione, ma un po’ appannato, al di sotto delle sue effettive potenzialità. Peppe Servillo, più sicuro sul versante musicale, cerca una maggiore naturalezza. Sono più consapevolmente brechtiani la bravissima Margherita Di Rauso (Celia Peachum), Sergio Leone (lo sceriffo) e il cantastorie di Giandomenico Cupaiuolo. Maria Roveran è una Polly vivace, Stella Piccioni una determinata Lucy. Rossy De Palma, la celebre attrice almodovariana, atout internazionale dello spettacolo, interpreta con ironica fisicità il ruolo di Jenny delle spelonche, che in passato fu di Milly e di Milva.
Funziona meglio l’aspetto musicale curato da Giuseppe Grazioli con i musicisti dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi: anche se l’approccio scrupoloso e storico alla partitura di Kurt Weill ammorbidisce troppo i contrasti, cerca un suono bello e toglie alle note l’anima graffiante e i modi sgangherati che dovrebbero avere.

Lo spettacolo continua
Piccolo Teatro Strehler
largo Antonio Greppi 1, Milano
fino all’ 11 giugno 2016

L’opera da tre soldi
di Bertolt Brecht
regia Damiano Michieletto
musiche Kurt Weill
direttore d’orchestra Giuseppe Grazioli
traduzione Roberto Menin
traduzione delle canzoni Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin
costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti
movimenti coreografici Chiara Vecchi

con Giandomenico Cupaiolo (un cantastorie), Marco Foschi (Mackie Messer), Peppe Servillo (Jonathan Jeremiah Peachum), Margherita Di Rauso (Celia Peachum), Maria Roveran (Polly Peachum), Sergio Leone (Jackie “Tiger” Brown), Stella Piccioni (Lucy), Rossy De Palma (Jenny delle spelonche), Pasquale Di Filippo, Claudio Sportelli, Martin Chishimba, Jacopo Crovella, Daniele Molino, Matthieu Pastore, Luca Criscuoli, Sara Zoia, Lucia Marinsalta, Sandya Nagaraya
con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa