Il poeta è un camaleonte

Solo tre repliche, tutto esaurito ogni sera. Lucido, il brillante, labirintico testo – del talentuoso argentino Rafael Spregelburd – arriva sotto i riflettori del Pim Off di Milano. Quando non è un caso aggiudicarsi il premio Ubu quale Miglior testo.

Il titolo cita Cortázar che, nel suo Bestiario, avrebbe così definito la figura del poeta, immagine a sua volta evocata dalla riflessione di Keats secondo il quale “il poeta è la più impoetica delle cose che esistono, in quanto si fa attraversare da tutti i colori del mondo, come il camaleonte”. Ci si perdonerà questo inizio da matriosca di citazioni, ma è lo stesso tipo d’inizio che segna questo rocambolesco testo del giovane (in realtà quarantenne, ma ormai va di moda così) Rafael Spregelburd: camaleontico lui stesso nella sua versatilità di uomo di teatro, camaleontico nei toni delle sue pièce e nei modelli presi a esempio, e autore di testi che al camaleonte accostano anche l’immagine della matriosca, se non addirittura quella del labirinto.

Spregelburd è un talento che, nonostante sia attivo come autore e regista fin dagli anni 90, solo negli ultimi tempi è emerso nelle regie italiane – e non solo – guadagnandosi successi e traduzioni dei suoi testi nei Paesi più disparati: questo per merito di una drammaturgia penetrante e brillante al tempo stesso, che richiama i suoi grandi modelli (dalle psicosi e situazioni paranoiche alla Sarah Kane, ai conflitti sentimentali e questioni irrisolte sul genere Pinter), mescolati a ciò che di più affascinante è presente nella cultura argentina: l’amore per l’onirico, per il fantastico e il visionario. Ecco che ritorna quindi Cortázar, trascinando con sé echi di Ernesto L. Castro, di Joaquín Gómez Bas, di Jorge Luis Borges e di Horacio Ferrer, nelle tinte del realismo magico e dell’onirico urbano.

La pièce inizia con una innocua cena di famiglia condotta sui toni della cortesia, dell’affetto: un giovane venticinquenne si trova a festeggiare il suo compleanno con la madre e la sorella in un ristorante e in un contesto da sogno. Ma ben presto scopriamo che questa atmosfera è davvero onirica: la cena è un sogno lucido, ovvero un sogno semi-incosciente che il giovane cerca di controllare lucidamente, come espediente terapeutico di un percorso psicologico che sta compiendo su se stesso. Bravissimo Antonio Gargiulo nel presentare la figura di questo ragazzo che rappresenta una gioventù smarrita, priva di punti di riferimento, soprattutto nella Buenos Aires post crisi economica, arrivando a inscenare momenti davvero esilaranti nelle pieghe di una condizione, in realtà, drammatica – lasciamo allo spettatore il divertimento di scoprire quali altri compiti terapeutici dovrà svolgere per emancipare la propria figura da quella materna.

È comunque soprattutto lui il link tra la realtà, da una parte, e la dimensione del sogno lucido, dall’altra – situazioni che Spregelburd sa alternare con efficacia, senza cali di tensione e senza smarrire lo spettatore. Questi passaggi sono resi ancora più chiari dall’intelligente regia di Milena Costanzo e Roberto Rustioni – aiutati, per scenografia e costumi, da Katiuscia Magliarisi – che scelgono un palco ampio e open space che si trasforma con versatilità immediata da luogo domestico della realtà a spazio onirico del ristorante. Costanzo e Rustioni – oltre a essere abili registi – sono attori eccellenti: la prima è Tetè, una madre pacatamente isterica, cinica e scorbutica ma, in realtà, il fulcro drammatico di tutta la vicenda; mentre Rustioni è un’ottima spalla sia nel ruolo del cameriere del ristorante, sia in quello di amante avventizio. Maria Vittoria Scarlattei personifica bene la sorella cosmopolita ed emancipata, che torna a casa dopo 15 anni di assenza, apparentemente per rivendicare il rene che donò al fratello quando erano piccoli. La sua figura di diversivo dirompente scatena una serie di questioni irrisolte e di silenzi pesanti e dolorosi che, però (e qui sta la genialità di Spregelburd), suscitano la risata là dove normalmente si piangerebbe: il linguaggio caustico, le giuste pause, l’ironia delle contraddizioni, la presa di coscienza dei propri limiti sottolineano le manie, i difetti, i nuovi “vizi capitali” della modernità, tutti elementi che qualcuno avrà già avuto modo di apprezzare nei testi della sua Eptalogia di Hieronimus Bosch.   

Come nell’eptalogia, anche in Lucido non manca il colpo di scena finale che chiude il cerchio e sbaraglia le convinzioni dello spettatore: lo spettacolo si è aperto con un sogno e si chiude con una visione allucinata, disperata, di qualcuno che cerca di emanciparsi dalla propria figura di perdente – ma non è il figlio venticinquenne dell’inizio.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro PimOff 
via Selvanesco, 75 – Milano
sabato 9, domenica 10 e lunedì 11 marzo

Lucido
di Rafael Spregelburd
traduzione Valentina Cattaneo e Roberto Rustioni
regia Milena Costanzo e Roberto Rustioni
con Milena Costanzo, Antonio Gargiulo, Maria Vittoria Scarlattei e Roberto Rustioni
assistente Elisabetta Carosio
oggetti di scena e costumi Katiuscia Magliarisi
luci e fonica Luca Pagliano
in collaborazione con Olinda e Fattore K