Bloody Lady in stile slapstick

Arriva, al Giglio di Lucca, la versione di Andrea De Rosa di una tra le tragedie più nere di Shakespeare, Macbeth. Seppur coraggioso e a tratti seducente, lo spettacolo non convince del tutto.

Spettacolo a metà strada tra due registri linguistici troppo divergenti tra loro, il Macbeth – per la regia di De Rosa – non convince, sebbene sia ricco (forse troppo) di spunti interessanti sia a livello di effetti sonori sia per quanto riguarda l’illuminazione e la scenografia.

Nella prima parte, più Tea for two (il film del ’50 con Doris Day) che non Cocktail Party (di T.S. Eliot), il testo tragico si perde tra risa sguaiate di ubriachi da osteria, un delitto ripulito col mocio in puro stile C.S.I. o Gomorralike, e un finale – la scena in cui Lady Macbeth afferra i coltelli dalle mani del marito – che rimanda involontariamente alla famosa gag di Be big! (1931), dove Stan Laurel impiega quasi dieci minuti nel tentativo di sfilare uno stivale a Oliver Hardy, in puro stile slapstick.

Questa trasformazione del testo shakespeariano in farsa grottesca non ha alcuna giustificazione né linguistica né tanto meno psicologica ma, accettando la dichiarazione dello stesso regista di voler rimanere «lontano da qualunque anacronistica tentazione psicanalitica» e lasciando allo stesso quella libertà da caméra-stylo – voluta da Astruc e ormai riconosciuta a livello cinematografico – ciò che sorprende è che la seconda parte (ossia, quanto avviene dopo l’omicidio di re Duncan) non segua questa linea – che sembrerebbe: l’irrisione grottesca di quella sete di potere che porta ai più atroci delitti. Al contrario, lo spettacolo si trasforma in una specie di incubo, dove il palco non è più un salotto borghese ma una casa di bambole nel quale i pensieri morbosi di Lord e Lady Macbeth sono – letteralmente – partoriti dalla donna, sotto forma di feti morti, mentre le streghe Cicciobello imperversano tra lettini d’infanzia e peluche, in un raggelante bianco livore da ospedale psichiatrico. E ancora, cambio ulteriore di registro, e si scivola nuovamente nel grottesco quando si compie, al ritmo di un rap partenopeo e con tanto di luci stroboscopiche, l’omicidio di Lady Macduff, o nella risata finale di Macbeth che si stoppa nella morte come un singhiozzo al termine di una sbornia.

Interessante, di certo, ma troppo sbilanciato e troppo ricco di elementi e interpretazioni che cozzano fra loro, al punto che la tragedia si trasforma in prodotto più filmico o televisivo che non teatrale, il che potrà forse piacere al pubblico giovane e poco avvezzo a Shakespeare ma lascia parecchi dubbi sull’intera operazione.

Aldilà del rispetto della volontà dell’autore – che è un discorso ormai desueto – quello che lascia sconcertati è il poco rispetto per la crescita e la modificazione psicologica (che nulla ha a che fare con la psicanalisi) dei personaggi. Il dramma di Macbeth e della moglie è quello di vedere realizzati i propri desideri di potere – a scapito di qualsivoglia visione etica della vita – e di accorgersi che questa realizzazione non porta la felicità bensì il rimorso, il terrore di perdere quanto conquistato illecitamente, la follia. Molto più che in altre tragedie shakespeariane – si confronti, ad esempio, l’irresolutezza incomprensibile di Amleto – la costruzione psicologica dei personaggi principali è piuttosto chiara e le dinamiche all’interno della coppia altrettanto. Lord e Lady Macbeth hanno una forza, una complessità e una centratura indubbie, che, al contrario, nello spettacolo di De Rosa, prima si diluiscono nell’alcool, in un omicidio frutto di ebrezza ripulito da un Macbeth-colf. E poi si vaporizzano in una specie di sogno allucinato, di incubo collettivo, dove la stessa follia di Lady tocca solo superficialmente l’animo del pubblico, inghiottito dallo splatter neonatale di pochi minuti prima.

Tra tutti, campeggia la recitazione argomentativa, straniata (nel senso brechtiano del termine: con l’attore che insieme interpreta e giudica il proprio ruolo) e coerente di Stefano Scandaletti, nei panni di Malcolm. L’unico che riesca a dare corpo e insieme solidità intellettuale al proprio personaggio, mentre Battiston vomita il proprio monologo sul pubblico a un ritmo rap che permette di seguire le parole ma non il filo logico del discorso (peccato imperdonabile quando si affronti un qualunque lavoro del Bardo); e Frédérique Loliée che incatena le parole creando neologismi non voluti e fatica a esprimere la complessità del personaggio di Lady Macbeth (decisamente tra i ruoli femminili più impegnativi del teatro shakespeariano) dovendo fare uno sforzo in più per addomesticare la lingua italiana – che non le è propria.

Nel complesso, uno spettacolo complesso e ricco di elementi innovativi che però, alla fine, lascia perplessi, come quel conato di vomito finale che diverte i ragazzi in balconata.

Lo spettacolo continua:
Teatro del Giglio – Lucca
venerdì 14, sabato 15 dicembre, ore 21.00
 
Macbeth
di William Shakespeare
traduzione Nadia Fusini
regia Andrea De Rosa
con Giuseppe Battiston, Frédérique Loliée, Ivan Alovisio, Marco Vergani, Riccardo Lombardo, Stefano Scandaletti, Valentina Diana e Gennaro Di Colandrea
spazio scenico Nicolas Bovey e Andrea De Rosa
costumi Fabio Sonnino
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper