Ritratti d’autore

A Santarcangelo si guarda anche Attraverso lo specchio, cercando di offrire spettacoli di qualità a un pubblico decisamente più giovane. Con il suo Butterfly, la compagnia fiorentina Kinkaleri porta sul palco dello Sferisterio un inno all’immaginazione come unico, eterno, strumento creativo. Mantenendosi strabici «per avere una visione privilegiata delle cose», i due artisti in scena parlano di abbandono, dolore e frivolezza con l’ugola rivolta al cielo e i polmoni pronti a fare fuoco, incendiando i cuori degli spettatori accalcati sugli spalti. Non saranno soltanto i bambini ad assistere con occhi lucidi alla morte di una farfalla.

Persinsala ha intervistato per l’occasione l’autore Massimo Conti.

Sarà una domanda ormai di rito per voi, ma la curiosità c’è e rimane: cosa significa Kinkaleri (e come nasce questo progetto interdisciplinare)?
Massimo Conti:«Kinkaleri nasce nel 1995 dall’incontro di sei soggetti artistici molto eterogenei. Da questa dimensione quasi “biologica”, come puoi immaginare, l’occasione di non porsi barriere nell’affrontare l’arte, lasciando la scelta del mezzo da usare o alle committenze o allo strumento migliore che via via consideravamo essenziale per poter affrontare determinati enigmi del contemporaneo. La ricerca sulle possibilità dei linguaggi di interagire tra loro è stata la costante che abbiamo assunto da subito come l’unica indispensabile.
Il nome Kinkaleri proviene dall’Albania dove, poco dopo la caduta dei blocchi, resistevano ancora alcune insegne che indicavano negozi dove poter trovare di tutto: dai quaderni ai tubi in alluminio, vestiti, molle o chiodi, insomma una sorta di emporio senza specializzazione. Non so se il nome è diretta conseguenza del gruppo, o se il gruppo è diretta conseguenza del nome, fatto sta che rispecchiava e rispecchia ancora (ora che siamo in tre) la nostra natura».

Dopo la messa in scena di Nessun Dorma nel 2010 (tratto dalla Turandot), tornate nuovamente alla carica con un altro adattamento liberamente ispirato alla Madama Butterfly. Come mai questa fissazione pucciniana?
M.C.: «Puccini è una figura culturalmente complessa in quanto testimone di un’epoca di passaggio, di cui è stato, in Italia, il principale testimone e artefice. Le sue opere sono esattamente abitate da questo doppio sguardo tra passato e futuro, tra sperimentazione e tradizione in un ambiente, quello del melodramma italiano, popolare e trasversale. Ci ha quindi subito attratto per la specifica dinamicità del suo agire, in un momento storico ancora una volta testimone di una frattura epocale come il nostro, dove forse l’atteggiamento migliore è quello di mantenersi strabici per avere una visione privilegiata delle cose. Ci è sempre piaciuto infine, il ruolo delle sue eroine femminili, quasi delle protofemministe, che nella passione, nel dolore e nella forza cercano di rompere gli schemi della loro posizione culturale».

Prima di entrare nel merito della riscrittura vera e propria, sarebbe interessante capire perché avete sentito (2010) e sentite tutt’ora il bisogno di rimettere mano al concetto di opera classica, al di là del desiderio di renderlo accessibile a un pubblico, come dite voi, di «giovanissimi». Cos’ha l’opera che altre forme di rappresentazione non possiedono e perché vale la pena rianimarla (ammesso e non concesso che qualcuno l’abbia interrata)?
M.C.: «La sua capacità comunicativa popolare travisata nel contemporaneo come cultura d’élite. Ci interessava riproporre l’opera come concetto popolare di comunicazione e capire quanta forza ancora potesse possedere. Questa è stata la prima motivazione nell’affrontare l’opera e portarla a un pubblico di giovanissimi che, forse ancor di più, potrebbero sentire questa distanza. Ci siamo chiesti per esempio quanto il recitar cantando potesse ancora essere un momento potente di coinvolgimento per una platea ormai immersa nel digitale e nella frammentazione e moltiplicazione di fonti sonore, e che quindi media continuamente le proprie risposte emotive. Il risultato è stato per noi abbastanza sorprendente e la chiave credo sia stata l’innesto di una capacità inventiva di manipolazione dei linguaggi del contemporaneo, sulla tradizione del melodramma come luogo principale di comunicazione di passioni ed emozioni».

La storia di Cho Cho-san che debuttò nel lontano 1904 alla Scala di Milano è, in buona sostanza, una tragedia terribile in cui tutto perisce: muore l’incanto della fanciullezza, ucciso da una tradizione spietata e da un matrimonio forzato, muore l’amore, pugnalato al cuore dall’egoismo, muore l’oriente, stuprato dalla soft colonization occidentale e dalla propria rigidità, e muore la bellissima farfalla, disposta a spegnersi pur di non rimanere inchiodata per sempre a una parete. La vostra è una scelta pensata per i bambini o contro i bambini?
M.C.: «La nostra scelta è pensata con i bambini. Quello che abbiamo cercato in queste due occasioni pucciniane è cercare di aprire il bambino al potere del canto e dell’opera come fonte di comunicazione emotiva. Il nostro tentativo è stato quello di trovare una strada per tenere sullo stesso piano la grandezza e l’apertura di un oggetto che culturalmente appartiene a una tradizione quasi esclusivamente italiana e che nel contemporaneo potesse trovare la sua traduzione e occasione di seduzione nella rappresentazione dei sentimenti. Nei due spettacoli poi la costante di affidare a un performer tutte le parti non coinvolte dal canto sta ad indicare la scelta di abitare direttamente il mondo dell’infanzia nelle sue pratiche di creazione che non hanno bisogno di apparati complessi ma che si affidano esclusivamente alla capacità di trasformare, o letteralmente, trasformarsi ogni volta in personaggi diversi nello stesso racconto. L’idea del bambino che contiene ogni parte del mondo che vuole rappresentare e lo agisce con la serietà del gioco che gli è propria. E’ dunque in un senso più prossimo che il nostro pensiero è stato con i bambini, anche se poi più di uno spettatore adulto ci ha detto che era limitante dichiarare questo lavoro per bambini, scorgendo in esso delle innovazioni linguistiche che non hanno limiti di età».

Scherzi a parte, forti delle vostre esperienze pregresse in ambito di teatro per l’infanzia (e non), è davvero possibile aiutare i bambini a comprendere il mondo tramite una catarsi teatrale? È inevitabile, infatti, fare i conti anche con la loro fantasia e, durante la prima a Santarcangelo, molti pargoli chiedevano ai loro genitori, ad esempio, «perché la signora giapponese piange?», quando era evidente per un adulto che il responsabile fossero le sue pene d’amore.
M.C.: «Devo dire che le reazioni in queste repliche in giro per l’Italia sono state tutte molto imponenti nel senso proprio dell’impatto emotivo che hanno suscitato. A Modena, per esempio, nel momento del suicidio rituale di Butterfly, tutta la platea di bambini ha accompagnato il gesto con una reazione emotiva di partecipazione che non avevo mai visto a teatro (sembrava ricordare quello che certe cronache teatrali dell’ottocento raccontavano di alcuni spettacoli particolarmente coinvolgenti ed emozionanti), e la trasformazione della Butterfly del finale, come un momento di liberazione totale. In generale dunque, e per una platea di bambini dai 6 anni in su, non abbiamo avuto problemi di comprensione della storia. Quello che forse è più difficile è far cogliere i passaggi “critici” del lavoro: l’egemonia culturale dell’occidente, la crudeltà dell’uomo che compra l’amore come compra una casa, la qualità della scelta dell’attesa di un amore in contrapposizione alla leggerezza dell’occidentale frivolo e smemorato. Cose che la storia contiene in sé e che forse è meglio far percepire nel flusso del racconto piuttosto che nell’analisi, lasciando magari questo lavoro alle insegnanti che in classe possono approfondire questi aspetti più complessi».

A quanto pare vi basta un po’ di nastro adesivo per creare mondi meravigliosi, giostrati in maniera impeccabile da una regia davvero raffinata che riesce a trasmettere il brivido dell’opera con linguaggi nuovi ed efficaci. Cosa vi ha spinti a prediligere uno spettacolo che si muovesse su due dimensioni differenti, aumentando così l’affabulazione a tratti onirica della storia?
M.C.: «La povertà. No a parte gli scherzi (che poi non è nemmeno tanto uno scherzo ma in parte vero, in quanto abbiamo sempre trovato nelle condizioni di produzione uno stimolo per sviluppare soluzioni sostenibili, senza rinunciare ad una idea di rappresentazione), immaginare dal vuoto, dal buio della scena, che qualche cosa appaia improvvisamente, e abbia tutto il potere di una visione, che diventa con pochissimo il luogo della narrazione di una grande storia è stata la nostra piccola invenzione. Il tutto, come introducevi, nel tentativo di non sminuire quel rapporto di grandezza che l’opera da sempre porta con sé. Pensare a un allestimento che abbia in sé una serie di rapporti formali e compositivi come il minimalismo orientale, la semplicità del gioco di un bambino, la creazione dal nulla di mondi, la relazione con due tipi di rappresentazione che si compenetrassero con continuità, il video e la scena, per accogliere una forma totale ibrida che dell’immagine in movimento ha il ritmo e l’uso del sonoro e del teatro tutta la potenza dell’essere qui ed ora nella creazione. Poi come sempre, e come avrai percepito fin dall’incipit, manipolare i linguaggi per produrre oggetti multiformi è un po’ il nostro istinto primario».

Con la prima apparizione estate-autunno al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo in Romagna, marcate l’inizio di un tour italiano di tutto rispetto. Dove vi vedremo, «un bel dì»?
M.C.: «Da qui alla fine dell’anno saremo a Bassano, Pistoia, Milano, Torino, Rimini. Nel 2017 poi la tournée continuerà un po’ in tutta Italia».

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo
Sferisterio

via Arrigo Faini 8 – Santarcangelo di Romagna
martedì 12 luglio
ore 21.30

Butterfly
progetto e realizzazione Kinkaleri
con Yanmei Yang, Marco Mazzoni
produzione Kinkaleri
in collaborazione con Teatro Metastasio Stabile della Toscana/FTS Fondazione Toscana Spettacolo
con il sostegno di Mibact – Dipartimento dello Spettacolo, Regione Toscana