La morte è sempre attuale

Sold out al Teatro Era di Pontedera per la Medea di Gabriele Lavia.

Prende all’addome prima che alla testa, come certi crampi femminili. E neppure ci discostiamo più di tanto col paragone: Medea è la cronaca di un dolore di donna, un dolore che a tratti degenera e a tratti sublima.
Ci troviamo al Teatro Era di Pontedera. La sua moderna, efficiente struttura lo rende – se paragonato ai teatri all’italiana – l’equivalente di una signora in tailleur accanto a dame opulente della Corte del Re Sole. Il viluppo del legno che avvolge pavimento e pareti cala la sala in uno spazio che sospende il fiato, rendendo perfetta l’acustica.
Ai piedi di una disposizione dei sedili che mantiene qualcosa del teatro greco-latino, si consuma l’opera di Euripide, eretta attorno al più complesso personaggio femminile concepito dalla tradizione ellenica. Medea, “figlia del Sole” – poiché barbara dell’Est – rea di atroci delitti per amor di Giasone e da lui ripudiata per nozze migliori, cova e attua una vendetta tremenda.
Interpretata da Federica Di Martino, sosta più volte in pose statuarie, dardeggiando sguardi, drappeggiata di nero dai capelli ai piedi. L’equivalente di un simulacro arcaico, di una qualche dea ctonia alla quale per secoli, per millenni, hanno offerto tributi di sangue pur di imbonirla.
Disperata, ma pienamente assorbita dalla passione di un conflitto dal quale non può assolutamente uscire sconfitta, Medea apparecchia i propri piani con voce apatica, alternando alla forza la debolezza del rimorso: ucciderà i figli che ama, pur di devastare Giasone.
Lui, portato in scena da Simone Toni, è la somma caricaturale del condottiero greco, arrogante e impacciato, deciso fino al ridicolo a farsi valere nei confronti della donna isterica. Perché Medea, perché non vuoi capire che se lui ti ripudia per sposare la figlia del re, lo fa unicamente per il bene tuo e dei figli, per dare a te denaro e a loro dei fratelli regali?
La fedeltà alla tradizione euripidea non viene a mancare, sebbene oggetto di una necessaria attualizzazione. Dichiara Lavia che: «Non si può fare uno spettacolo andando a ritroso nel V secolo e rimanendo là. Bisogna andarci per poi tornare ai nostri giorni.» Ecco dunque uno spazio scenico essenziale, iconico: l’interno di una casa, i cui mobili sono monoliti, forme destinate a ripetersi come una prigione. Ecco re Creonte, avvolto in un impermeabile da affarista; il Coro delle femmine di Corinto, che contorna i monologhi di esclamazioni asciutte, anch’esso abbigliato come il sovrano, giacca e completo grigi, cappello panama, tacchi bassi – forse a evidenziare l’invalicabile distanza che separa loro, i greci civilizzati, dalla barbara Medea. Espressivamente più disteso, il Coro parla in prosa, suddividendosi le battute. Tale disposizione, però, è infranta con l’assassinio dei figli di Giasone, nell’agghiacciante immagine della doccia, che vede una Medea nuda, stagliata come silhouette nella luce scarlatta, intenta a lavarsi del sangue, della colpa e della memoria.
Sospinta da improvvisi spasimi musicali che parrebbero presi da una pellicola horror, la scena è sconvolta dalle voci urlanti del Coro, sommate a costruire una singola voce metallica e agonizzante.
Si riscontrano modifiche nei punti che, se mantenuti, avrebbero ostacolato l’escalation della tensione: tagliata la conversazione con Egeo, abolita la tradizione dell’assassinio fuori scena, con le grida dei bambini. Lavia preferisce un omicidio silenzioso, compiuto nella penombra da una Medea che canta mestamente sui fanciulli ignari. Nessun carro solare conduce via la maga, alla fine della rappresentazione. Cade così anche l’epifania divina conclusiva. Ma in Euripide, il tragediografo della sfera umana, un taglio del genere non è in grado di far danni. Ciò che rimane è una riduzione all’osso, fedele finché può, ma depauperata di verbosità e complessità cronologiche. Ci rimane una Medea feroce, ma dolente, in linea con la cronaca attuale, fitta di uomini e donne che vinti – gli uni da gelosie e debiti economici, le altre dalla depressione – rendono i figli vittime di tremendi delitti, dettati dalla convinzione atroce di compiere un atto d’amore.
Questo resta: una storia intensa, forse un po’ cinematografica – in particolare a livello del sonoro. Un agile utilizzo di pause e luci conferisce monumentalità alla figura della Di Martino, assorbita da un personaggio inquietante, che passa dall’apatia alla frenesia omicida con movenze di ragno.
In tutto ciò ci rispecchiamo. E in tale attualità, in tale lugubre ammissione, il successo di Medea, violenza a noi nota. «Se abitavi ai margini del mondo, ora di te nessuno parlerebbe». (Giasone)

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Era

via Indipendenza
sabato 8, ore 21.00, e domenica 9 aprile, ore 18.30

Medea
di Euripide
traduzione Maria Grazia Ciani
adattamento e regia Gabriele Lavia
con Federica Di Martino, Simone Toni, Mario Pietramala, Giorgio Crisafi, Angiola Baggi e Francesco Sferrazza Papa
e con Sofia De Angelis e Giulia Horak
coro Barbara Alesse, Ludovica Apollonj Ghetti, Silvia Biancalana, Maria Laura Caselli, Flaminia Cuzzoli, Alice Ferranti, Giulia Gallone, Giovanna Guida, Katia Mirabella, Sara Missaglia, Marta Pizzigallo, Malvina Ruggiano e Anna Scola
scenografia Alessandro Camera
costumi Alessio Zero
musiche Giordano Corapi e Andrea Nicolini
luci Michelangelo Vitullo
assistente regia Lorenzo Terenzi
capo macchinista Adriano De Ritis
capo elettricista Javier Alberto Delle Monache
fonico Riccardo Benassi
capo sarta Piera Mura
amministratore Filippo Rossi
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Fondazione Teatro della Toscana