L’altra faccia del teatro contemporaneo

21 ottobre. Una settantina di operatori del settore, amministratori locali e qualche giornalista si ritrovano al Metastasio per scoprire come sarà il Codice dello spettacolo dal vivo, in altre parole il futuro del teatro italiano.

Massimo Bressan, presidente della Fondazione Teatro Metastasio, fa gli onori di casa, presentando i vari ospiti che interverranno all’incontro. Si discuterà di quella Legge quadro che si sta attendendo da decenni e che i parlamentari presenti dichiarano di prossima stesura e approvazione. Ma veniamo agli interventi, alle sollecitazioni da parte del pubblico presente e ad alcune riflessioni spurie che ci sono venute alla mente.

Il primo a parlare è stato l’onorevole Roberto Rampi, che ha subito annunciato di voler arrivare all’approvazione definitiva del Codice dello spettacolo dal vivo nel 2017. Sostenuto, in questo, dalla senatrice Rosa Maria Di Giorgi che ha dato anche una data limite, fissandola nella primavera dell’anno prossimo. Non si può che essere contenti di tale promessa ma ci si domanda anche se, tanta fretta (visti i risultati di altre leggi inderogabili concluse a tempo di record, come quella sulla fecondazione assistita – finita alle ortiche a colpi di sentenze della Corte costituzionale), non precluderà un dibattito davvero approfondito in Parlamento, e con le associazioni di categoria e i diretti interessati.
L’onorevole Rampi ha affrontato anche tre temi oltremodo spinosi: la semplificazione della normativa in materia, le incentivazioni fiscali al settore, e il riordino del sistema del welfare per i lavoratori dello spettacolo. Sulle dichiarazioni finali è entrata nel merito l’attrice Valentina Banci, portavoce dell’Associazione Facciamo la conta, che ha letto un appello che, polemizzando con La Giornata del Teatro voluta dal Ministro Franceschini, ha messo in campo l’unico giocatore, ossia l’attore. La polemica nasce dal fatto che la giornata del 22 ottobre si risolverà soprattutto con un’entrata gratuita per coloro che desiderino visitare i teatri (un centinaio circa) quasi fossero dei musei – piuttosto che luoghi vitali di cultura e sapere in trasformazione. E che questa soluzione è stata trovata perché non sono stati stanziati fondi, a livello statale, per coprire i costi della manifestazione stessa. Ancora una volta, attori e tecnici avrebbero dovuto, probabilmente, contribuire a titolo gratuito e, almeno da parte dei membri di Facciamo la conta, la proposta non è stata gradita. Aldilà del casus belli, l’appello chiaro è quello che si dia dignità economica e sociale a un lavoro che, troppo spesso, è considerato un hobby, un passatempo velleitario per anime belle che sarebbe inadeguato, forse irrispettoso, retribuire (perché il lavoro, per essere pagato, sembra che debba essere faticoso, umiliante e demotivante). A questo punto, ci permettiamo di aggiungere che un’altra categoria di lavoratori non è mai citata, pur facendo parte di quel teatro che si vorrebbe virtuoso: ossia di qualità e culturalmente valido. La figura del critico. Mentre l’editoria langue nel più completo abbandono, e la mancanza di idee, oltre che la pavidità degli editori, sta portando al disfacimento del sistema dell’informazione, le riviste online che stanno prendendo il sopravvento, occupandosi di critica teatrale, sono lasciate sole a colmare il vuoto di sapere.
Nel corso del dibattito si è più volte ribadita l’importanza dell’educazione e della formazione del nuovo pubblico (soprattutto da parte della senatrice Di Giorgi), premendo sul tasto della scuola. Ma il tasto dell’informazione online? Ormai, dati alla mano, è attraverso la rete e i social network che (volenti o nolenti) le nuove generazioni si formano. Non tenere conto di questo fattore e della progressiva perdita di consensi e di interesse in una critica seria da parte dei mass media tradizionali, manterrà l’Italia sempre in uno stato di arretratezza. Nonostante si continuino a incensare le figure di critici del passato, primo fra tutti Franco Quadri, non si riconosce oggi ad altrettanto bravi colleghi il loro ruolo di divulgatori. Si è perfino ipotizzato, in corso di dibattito, un intervento diretto dei circuiti (presente Fondazione Toscana Spettacolo) in questo settore. Ma ci si domanda: perché i distributori dovrebbero occuparsi di formazione del pubblico (inventandosi competenze e professionalità), quando esistono già i giornalisti e i critici teatrali?

Molto interessante l’intervento di Monica Barni, vice presidente e assessore alla cultura della Regione Toscana, che ha ribadito l’importanza di armonizzazione gli interventi dello Stato e degli Enti locali. Aggiungendo che è indispensabile fare rete; valorizzare la pluralità dei linguaggi e l’espressione della contemporaneità; puntare sull’internazionalizzazione delle produzioni, sulle residenze e gli scambi interregionali; premiare il ricambio generazionale. Tutte proposte che sottoscriviamo pienamente. Ma qual è la realtà? La distribuzione, purtroppo, è spesso demandata a uno scambio tra ex Stabili mentre i circuiti regionali preferiscono puntare sui nomi famosi, oltre al fatto di considerare prioritario portare il nome famoso nel piccolo centro, invece di lasciare il nome famoso alla distribuzione privata e occuparsi di promuovere una rete virtuosa tra piccole e medie imprese culturali. Le residenze si riducono meramente a offrire uno spazio per le prove (spesso senza nemmeno il supporto tecnico) a Compagnie minori o artisti singoli, che al massimo sono ricompensati con il debutto (spesso a incasso) nel teatro ospitante. Le residenze all’estero, al contrario, funzionano perché mettono in contatto diretto tutte le sinergie del teatro ospitante (maestranze tecniche, uffici stampa e promozione, contatti con la distribuzione) con le nuove idee e la creatività della Compagnia o dell’artista ospitato. E veniamo all’internazionalizzazione delle produzioni, punto sul quale è intervenuto l’assessore alla cultura del Comune di Prato, Simone Mangani, puntualizzando che le relazioni delle nostre Compagnie con l’Europa sono rese difficili anche dall’attuale normativa sugli appalti internazionali (ne riparleremo più avanti). E ancora, l’armonizzazione della quale parla la vice presidente Monica Barni tra Stato ed Enti locali cosa comporterebbe? Ultimamente i parametri per accedere ai fondi regionali si sono armonizzati (ossia sono stati innalzati) con quelli statali, escludendo così molte realtà medie e piccole che, prima, pur non ricevendo il Fus, potevano contare sull’aiuto della Regione (e della Provincia, oggi venuta meno). Questa scelta sta già avendo pesanti ricadute sul territorio. Solo per citare un teatro storico e una tra le Compagnie più prestigiose e innovative d’Italia, il Teatro di Buti e Marconcini/Daddi che, probabilmente, quest’anno non riusciranno a organizzare una propria Stagione. Questo l’esempio più eclatante, ma l’elenco sarebbe lungo (e non vogliamo ammorbare il lettore, invitandolo però a segnalarci altre realtà che vivono in situazioni di disagio). E veniamo al premio che spetterebbe agli scambi interregionali: ci si dimentica che l’attuale normativa Fus premia, al contrario, la circuitazione nella stessa Regione? Per quanto riguarda, infine, il linguaggio contemporaneo da valorizzare, non si capisce come si possa farlo, premiando la quantità (aumento del numero dei biglietti venduti e delle repliche). La quantità a breve si ottiene solo in un modo, falsificando il gioco. Ossia facendo entrare a piè pari in campo il teatro commerciale. A proposito, invitiamo la vice presidente Barni (che ci sembra un amministratore sensibile e capace, con idee pienamente condivisibili) a sfogliare i programmi dei teatri toscani, per la Stagione 2016/2017, per rendersi personalmente conto del numero di attori televisivi e nomi noti che affollano le locandine. Nomi intorno ai quali si costruiscono progetti pseudo-culturali ma che nascondono due vizi di fondo. Un chiaro spostamento della ricchezza (inteso come contributo statale) dalla ricerca e contemporaneità – di attori e Compagnie minori – ai personaggi dell’establishment televisivo; e un abbassamento qualitativo del teatro nel suo complesso, dovuto anche e soprattutto a un appiattimento del linguaggio teatrale verso quello del reality o del talk shaw (ma di questo riparleremo in chiusura).

Tornando all’assessore Simone Mangani, lo stesso, ha fatto due proposte pratiche che si possono accettare a scatola chiusa. Ossia, che – per i meccanismi di solidarietà – nel caso di imprese in crisi, i costi degli aiuti ricadano sul Fus nel suo complesso, e non solamente sulla categoria o sull’area alla quale appartiene il teatro specifico. E che (escludendo la gestione complessiva, perché altrimenti il privato potrebbe vantare diritti sulla programmazione teatrale) i singoli spettacoli possano essere finanziati dai privati, i quali abbiano a loro volta agevolazioni per tale forma di mecenatismo. Da più parti, a proposito, si è citato l’Art Bonus – come forma di finanziamento che potrebbe essere allargata allo spettacolo dal vivo.

Ninni Cutaia, nuovo Direttore generale dello spettacolo dal vivo, ha messo al centro del discussione la valorizzazione dei lavoratori dello spettacolo e il ricambio generazionale, insistendo su un massimo di due mandati per la figura di direttore artistico. Da sottoscrivere in pieno anche il suo invito affinché il teatro commerciale si mantenga da sé, e a un’alleanza con il mondo della scuola, dato che la formazione dei giovani deve considerarsi prioritaria (in quanto sono loro gli spettatori di domani).

È salita sul palco anche Beatrice Magnolfi, presidente pro-tempore di Fondazione Toscana Spettacolo, chiedendosi quale sarà il futuro della distribuzione. La risposta che ci sovviene è quello di distinguere tra distribuzione privata assegnata al teatro commerciale e pubblica, finanziata dallo Stato, per la contemporaneità e le Compagnie medie e piccole. Non pensiamo, infatti, che sia importante che Silvio Orlando (solo per citare un nome a caso) debba essere aiutato ad andare nel teatrino di provincia. Bensì che sia necessario che tutte le esperienze alternative, giovani (non nel senso anagrafico ma di costituite da poco), o di ricerca, possano usufruire dell’aiuto di Fondazione Toscana Spettacolo per la distribuzione, ma anche per altri servizi (che non potrebbero permettersi individualmente), quali l’ufficio stampa, la promozione e le eventuali pratiche per accedere ad appalti europei (di cui abbiamo discusso in precedenza) o per costruire progetti e tournée internazionali.
Beatrice Magnolfi ha invitato anche i legislatori a un riequilibrio dei finanziamenti distribuiti tra cinema o beni culturali e spettacolo dal vivo. E a farla finita con i finanziamenti a pioggia. Quello che non si è capito sono quali principi bisognerebbe proporre per la distribuzione del Fus, cosa bisognerebbe misurare e con quali parametri. Ci rendiamo tutti conto che quelli dell’attuale normativa sono fallaci. Molti hanno puntato il dito sulla qualità. Nessuno ha proposto però di usare dei peer gorup, ossia (al posto di Commissioni) gruppi omogenei e stanziati territorialmente composti da membri assegnati con regolarità (magari triennale, come i finanziamenti pubblici), scelti tra insegnanti, critici e accademici/intellettuali.
Sull’importanza della scuola e la formazione del pubblico, Magnolfi si è unita alle voci dei suoi predecessori, puntando sulla centralità dello spettatore. Quest’ultima frase ha sollevato però alcuni dubbi. In primis, il timore di cadere in un facile populismo e riempire le sale teatrali di spettacoli di botteghino. E infine, ha fatto cenno all’importanza della multidisciplinarietà. Ma quale? Perché di spettacoli ideati con l’intento di accaparrarsi qualche fondo, inserendo un video posticcio e tre studenti della scuola di danza locale, possiamo sinceramente farne a meno.

Sul palco è salito anche Luca Ricci, regista e membro del direttivo di CReSCo, il quale ha affrontato il vulnus della questione. Ossia, perché lo Stato sostiene lo spettacolo dal vivo. Ricci ha ribadito che si dovrebbe sostenere la tradizione e investire sul rischio culturale. Mentre, per il teatro commerciale, si possono prevedere norme di defiscalizzazione ma non un sostegno diretto. Per noi, la posizione è chiara e la nuova Legge dovrebbe probabilmente inserirla come primo articolo. Perché da questa scelta discenderebbero delle conseguenze altrettanto chiare, anche a livello di decreti attuativi. Per fare un esempio, non si dovrebbe premiare lo sbigliettamento facile e veloce ottenuto con il nome di cassetta, bensì quello conquistato dopo anni di lavoro, attraverso la formazione, il radicamento territoriale, la continuità e qualità delle proposte, l’educazione del pubblico e la serietà del progetto. Ricci ha anche puntato il dito su un problema pratico, ossia quello dell’ospitalità – che è finanziata attualmente in misura esigua rispetto alla produzione. Ci permettiamo di aggiungere che questo squilibrio ha gravi ricadute anche sulla qualità delle proposte, sia perché gli artisti sono incentivati a nuove creazioni in maniera bulimica, anche quando non ne sentono necessità; secondo, perché la rete ha difficoltà a esistere se i teatri non sono incentivati ad accogliere anche produzioni minori o innovative, che non avranno un immediato riscontro di pubblico.

Gerarda Ventura, alla direzione artistica di Anghiari Dance Hub, ha ricordato infine il mondo della danza contemporanea, un universo ormai sconosciuto ai più perché non si è fatta per anni alcuna opera di educazione e formazione degli spettatori, e perché i parametri per accedere ai finanziamenti pubblici, se irraggiungibili per molte Compagnie di prosa, sono semplicemente proibitivi per danzatori e coreografi. Ma il dato più sconcertante, e oramai palese, è che la danza italiana, che non riesce a circuitare nel nostro Paese se non in occasione dei festival, all’estero ha rinomanza e gode di rispetto. Una dicotomia, questa, che dovrebbe far pensare i nostri legislatori. In primis, quando si considerino i famosi parametri (in maniera avulsa dai reali contesti produttivi) e, in seconda battuta, quando si tenga conto che se il linguaggio della prosa andrà ancora più scadendo, e il linguaggio teatrale non sarà visto e appreso come qualcosa di autonomo e originale, ci si ritroverà con lo stesso vuoto di pubblico che sta patendo oggi il mondo della danza.

E veniamo all’ultimo intervento (in realtà, il secondo, ma ci sembra doveroso metterlo a questo punto come chiusura del cerchio). La senatrice Rosa Maria Di Giorgi, relatore della commissione cultura al Senato, dopo avere precisato i tempi dell’approvazione della Legge (di cui sopra), ha promesso un incremento del Fus, un nuovo sistema di defiscalizzazione, un ripensamento sull’attuale tassazione Imu per i teatri, la destinazione di una cifra a fondo perduto per opere di ristrutturazione (come approvato nella normativa sul cinema).
Purtroppo non è entrata nel merito di quelle che devono essere le specifiche per accedere ai fondi pubblici (parametri che si vorrebbero collegati alla qualità, al radicamento territoriale, alla reale sperimentazione di nuovi linguaggi e, quindi, al rischio culturale). E, soprattutto, non ci sembra che la soluzione di far partecipare (nelle vesti di attori, tecnici e maestranze varie) le scolaresche agli spettacoli sia di per sé valida, in quanto porterebbe in teatro anche i loro genitori – che altrimenti non ci andrebbero. Ci permettiamo di dissentire: i genitori andrebbero anche, e vanno, alle recite scolastiche o accompagnano i figli allo shopping del sabato pomeriggio.  Ma qual è il valore aggiunto di questa esperienza? Quello che si sta ottenendo è un abbassamento della forma teatrale a recita scolastica, e uno svilimento ancora una volta della professionalità degli artisti. Dato che, se possiamo riempire i teatri con i ragazzini delle scuole medie come attori e i liceali come scenografi e costumisti, non si capisce perché dovremmo assumere personale preparato – che fa questo mestiere dopo un lungo percorso di studi e, spesso, una altrettanto lunga gavetta. È il teatro, al contrario, quello professionale, che dovrebbe tornare a riempire scuole e piazze, strade e luoghi altri. E l’avvicinamento tra i due mondi potrebbe passare proprio da un’intermediazione operata da critici e insegnanti, che spieghino le specificità del linguaggio teatrale (che va ben aldilà del testo, ancora troppo centrale in ogni ordine di insegnamento).

Altrimenti, ci sorge il dubbio che, alla lunga, il teatro diventerà il palcoscenico per reclamizzare serial e reality. O è già successo?