Frammenti tra il dire e l’essere

teatro-argot-studio-romaDopo aver portato sulle scene romane, tre anni fa, la teatronovela Bizarra del drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, Manuela Cherubini torna nella capitale con un nuovo progetto di traduzione e direzione: ancora un porteño, Daniel Veronese, con i tre monologhi di Musica rotta.

Testi frammentati, pensieri intrecciati, divelti da un contesto e ripiantati altrove, reale e immaginario cuciti insieme e poi strappati: Musica rotta è uno spettacolo difficile, che lascia molti interrogativi e poche risposte, eppure si è certi di aver acquisito un bagaglio abnorme di informazioni su un mondo indicibile e misterioso. Obiettivo raggiunto dunque per Manuela Cherubini, che nelle note di regia avverte: «Se c’è una cosa che l’uomo della modernità non tollera è non sapere. Veronese riesce a catturare quest’idea: le cose accadono, ma possono non essere comprese». Non si poteva dirlo meglio di così, e non lo si poteva drammatizzare meglio di come Veronese è riuscito a fare. Il primo monologo, Luce del mattino in abito marrone, ha molti protagonisti: l’uomo che parla al pubblico, e descrive dettagliatamente una scena di attrazione agita da una coppia in camera da letto prima che il desiderio esploda; la coppia stessa, che pur non esistendo catalizza i pensieri romantici ed erotici degli astanti; la luce del mattino che filtra dalla finestra a indicare che è giorno; la donna reale che irrompe in camera mentre il protagonista parla e descrive e immagina, per raccontargli angosciata dell’incontro imprevisto avuto in casa con una sconosciuta il giorno prima; l’abito marrone, infine, indossato dall’uomo descritto nella scena di desiderio, abito che però esiste davvero ed è il preferito dell’uomo che parla al pubblico, e che inspiegabilmente non è al suo posto. Impossibile comprendere, a fine atto, dove sia il confine tra la realtà e la finzione, determinare se la coppia immaginata sia proprio quella in scena, finalmente libera – nel sogno – di abbandonare il calcolo del quotidiano per il calore dell’intimità; come pure è impossibile ricondurre in uno schema realistico l’arrivo della sconosciuta in casa così come la donna ce lo narra. In pieno stile da teatro dell’assurdo, questo evento ai limiti del surreale è il pretesto per dar voce alle istanze borghesi della coppia, unico elemento riconoscibile e intelligibile nella trama misteriosa del testo.
Il secondo monologo, Signorine portegne, trasforma un fatto linguistico in gioco drammaturgico. Una donna, passeggiando nel giardino botanico una mattina d’autunno, incontra un gruppo di signorine che cammina nella sua direzione. L’immagine di una in particolare le resta impressa. “Le resta impressa”. Un modo di dire semplice ed efficace, che qui diventa realtà: l’immagine della ragazza si imprime sulla donna, le resta impigliata al bavero del cappotto, e la donna se ne accorge solo a casa, davanti allo specchio. Da quel momento si accanisce nella ricerca della ragazza, che infine trova, per renderle la sua immagine. Una trovata geniale – per dirla con un eufemismo – che traduce anche una forma sottile e disperante di desiderio da parte della donna matura verso la ragazza. Desiderio della sua gioventù, di una immagine altrettanto magnetica e sfuggente.
Si è riso con discrezione nel primo monologo, meno nel secondo, ma arriva il terzo a decomprimere e a lasciare che risate più sfacciate scivolino giù dagli spalti: è il momento di Lùisa, la storia di un’attesa lunga dodici anni, che si conclude con un abbandono. Sembrerebbe un racconto struggente ma il testo non lo vuole così: è brillante Luisa nel suo impaccio, fatto di incredulità per il ritorno dell’amato Agostino (che la chiama Lùisa, spostando l’accento) e per il suo andar via repentino, di nuovo e forse per sempre. Un incontro di non amore, di sentimenti incompresi, di calore prodotto frizionando le braccia con le mani, certo non dal cuore. Dei tre, è il monologo più godibile, meno complesso, che intreccia desiderio, illusione e disillusione in una rete di cognizioni amorose e dolorose che tutti ben conosciamo, ma con il miracolo del sorriso aperto su ogni parola.
Splendida prova attorale per Raimondo Brandi, Patrizia Romeo e Luisa Merloni, tutti già in Bizarra e ora nuovamente in scena con la regista Manuela Cherubini, che non si risparmia neanche stavolta, nel duplice impegno di direzione e traduzione del testo originale. Il suo allestimento di Musica rotta riesce a tenere insieme in modo organico i frantumi che Veronese sparge tutt’intorno: l’intervento dei video, che agiscono in simultanea con la scena pur rappresentando eventi legati ad essa da rapporti di anteriorità e posteriorità – mai contemporaneità -, è assolutamente pertinente e sensato, ma di fatto rischia di distogliere l’attenzione dello spettatore dal testo drammatizzato, che invece richiede, per la sua densità, massima concentrazione nell’ascolto.
È forse questo, a volerne cercare, il punto debole di uno spettacolo che custodisce la sua forza nella complessità che consegna al pubblico: né facilitazioni né didascalie per lo spettatore moderno, uomo che vuole conoscere ma che non può non confrontarsi con i suoi limiti e, una volta per tutte, arrendersi a essi.

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Lo spettacolo continua:
Teatro Argot Studio
via Natale del Grande, 27 – Roma
fino a domenica 22 dicembre, ore 21.00
(durata 1 ora e mezza circa senza intervallo)

Fattore K e Psicopompo Teatro presentano
Musica rotta
di Daniel Veronese
traduzione Manuela Cherubini
regia Manuela Cherubini
con Raimondo Brandi, Luisa Merloni, Patrizia Romeo
video Igor Renzetti, Lorenzo Bruno
disegno luci Igor Renzetti
immagini e consulenza musicale Ale Sordi
produzione esecutiva, organizzazione e promozione Camilla Chiozza