Una nuova produzione del Teatro alla Scala propone una lettura moderna del dittico verista – che divide fortemente il pubblico, soprattutto per la direzione musicale e la regia. Unanime dissenso e cascata di fischi, invece, per i tenori.

Slittata la sera del 18 gennaio la prima di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo – prevista al Teatro alla Scala per il 16 – a causa di uno sciopero indetto dalla Segreteria Territoriale e RSA CGIL. Rinvio che ha accresciuto ancora di più l’attesa e l’aspettativa per queste due opere che mancavano dal tempio della lirica milanese da più di vent’anni.

La voglia di novità e di prendere le distanze dalla tradizione è intuibile ancor prima che inizi lo spettacolo, nel momento in cui si apprende che l’ordine consueto di esecuzione dei due capolavori sarà invertito. Il primo pensiero è che sia stata una scelta dettata da esigenze tecniche – infatti, come vedremo, Pagliacci ha un apparato scenico molto più complesso da montare rispetto a Cavalleria. D’altronde, c’è anche una forte motivazione poetica che – come spiega il sovrintendente Lissner in un’intervista durante l’intervallo – vede più consono il passaggio da un clima sì tragico ma ancora ricco di elementi tipici della commedia (Leoncavallo) alla tragedia integrale di Mascagni, piuttosto che il contrario. In effetti le due regie, curate entrambe da Mario Martone, sembrano partire proprio da questo assunto.

Il sipario che si apre, quindi, su Pagliacci mostra una scena dominata, sulla destra, da uno scorcio di raccordo autostradale praticabile – che fa intuire come l’opera non sia ambientata nel piccolo paesino della Calabria indicato dal compositore, me nella periferia di una grande città, in tempi moderni. Sulla sinistra è posta una roulotte – che poi si rivelerà la dimora di Nedda e Canio – e che sposta la condizione dei protagonisti da attori girovaghi a rom dei giorni nostri. I costumi – tutti contemporanei – ne sono una conferma. Il clima generale è più circense che teatrale – grazie anche alla presenza di acrobati e funamboli che attraversano la scena, in equilibrio su una fune, o fanno evoluzioni arrampicati su una pertica – per buona parte dell’inizio.

Teatralmente potrebbe anche essere un’ottima intuizione, se non fosse che Oksana Dyka – la protagonista femminile che, qualche tempo fa, abbiamo visto a Cremona in un Trovatore a dir poco disastroso – risulta completamente disorientata rispetto al suo personaggio e a tutto lo spettacolo. Non ha presenza scenica, vaga per un’ora e un quarto sul palco senza collegare nemmeno una volta il gesto al testo, come se non comprendesse il significato delle parole che canta. La voce, tuttavia, non è brutta, ma è utilizzata in un solo modo, risultando così in un’interpretazione piuttosto piatta. Chiaramente la giovane interprete deve ancora affinare sia la tecnica attoriale – quasi inesistente – sia quella vocale, soprattutto per evitare allo spettatore di essere aggredito da spiacevoli urla, al posto di acuti potenti e, al contempo, morbidi ed espressivi.

L’altra cocente delusione arriva dal tenore José Cura, nella parte di Canio, che non si dimostra all’altezza del ruolo: vocalmente carente, dà il peggio di sé proprio nella celeberrima aria Vesti la giubba, cantando con estrema, troppa libertà, tanto da essere completamente fuori tempo – rispetto all’orchestra – per tutta la prima parte, giocando di un anticipo ingiustificato e pedante, proprio perché persistente – se voleva essere una raffinatezza, è caduto nella volgarità.

Bravi invece gli altri interpreti, soprattutto un magistrale Ambrogio Maestri nella parte di Tonio, che ha eseguito un eccellente prologo con due “sol” che raramente si sentono fatti così – sia a livello di intensità che per la perfezione. Lode anche al giovane Mario Cassi nei panni di Silvio, che fa il suo ingresso in scena a bordo di un’auto e che per tutto il secondo atto occupa il suo posto di spettatore direttamente dalla prima fila, di fianco al pubblico. Questa è effettivamente l’idea geniale di Martone: sfruttare tutti gli spazi, alcuni dei quali creati ad hoc. Oltre alla scenografia praticabile – di cui abbiamo già scritto – il regista ha infatti pensato di prolungare il palco grazie a due ali laterali che abbracciano la buca dell’ orchestra, in modo che l’azione si svolga anche affianco a questa. Gli interpreti, inoltre, sfruttano la platea come via di fuga e tutta la prima fila di spettatori si trova coinvolta nel dramma in atto: non a caso l’opera si chiude con lo scontro tra Canio e Silvio, messo in scena praticamente tra il pubblico astante. Finzione e realtà si fondono con successo e Martone amplifica in modo notevole la tematica tanto cara a Leoncavallo, rompendo i confini spaziali tra teatro e vita, tra spettatori fittizi e reali.

La stessa idea di massima sfruttabilità scenica si ritrova in Cavalleria Rusticana dove, però, il regista abbandona la chiave di lettura moderna, a favore di una messinscena maggiormente in linea con la tradizione, almeno per quanto riguarda i costumi. Gli apparati scenici sono ridotti all’osso e il principio è quello di un grande spazio che, di volta in volta, si trasforma nei luoghi deputati all’azione – grazie a piccoli elementi o ai sapientissimi giochi di luce del bravo Pasquale Mari.

Anche questa volta si scivola, però, in qualche cliché – come la scena iniziale del bordello alla quale, in realtà, Mascagni non ha mai pensato; o il vestito rosso di Lola – ma l’atmosfera generale è più raccolta ed è facile intuire che la chiave di lettura scelta sia stata quella di puntare sulla centralità del rito. Per la quasi totalità dello spettacolo, alle spalle dei cantanti, si celebra – non a caso – una lunghissima messa pasquale, molto curata nei dettagli, con tanto di preti, chierichetti, aspersori e incensieri, oltre a un grande crocifisso calato dall’alto, che ricorda molto la stessa soluzione adottata da Emma Dante per la sua Carmen – nella scorsa stagione scaligera.

Certo, questa regia ha molto poco a che vedere con i colori solari della musica di Mascagni, ma risulta ugualmente una boccata d’ossigeno per i melomani già delusi da Pagliacci, soprattutto grazie alla bellissima interpretazione di Luciana D’Intino nel ruolo di Santuzza. Voce calda, piena e ricca di espressività che il soprano sa usare con grande bravura tecnica e buon gusto assoluto.

Altra amara delusione, ancora una volta, per il tenore protagonista – Salvatore Licitra, nelle vesti di un Turiddu assolutamente fuori parte – che riesce a rovinare la famosissima scena di commiato con Mamma Lucia. Dovrebbe essere il momento più tenero e commovente di tutta l’opera, quando madre e figlio si salutano per l’ultima volta, perché presto Turiddu morirà in duello, ucciso dal rivale Alfio. Il risultato, purtroppo, è una scena gridata, attorialmente scadente – Licitra canta quasi sempre con lo sguardo fisso nel vuoto, senza volgere mai gli occhi verso la sua partner, forse preoccupato dalle note da intonare, visto che sicuramente delle parole e del loro significato non si preoccupa minimamente.

Peccato vedere e sentire cantanti poco preparati che, ancora nel 2011, assumono pose in voga forse nell’Ottocento e che non trovano il loro spazio all’interno dell’economia dello spettacolo.

In realtà, se la regia di Martone non è stata capita fino in fondo è essenzialmente a causa loro, dato che la direzione di Daniel Harding – seppur abbia asciugato la partitura, allontanandosi molto dall’interpretazione emozionante che tutti si aspettano per queste due opere – era perfettamente in linea con l’idea registica.

Lo spettacolo continua:
Teatro alla Scala

via Filodrammatici, 2 – Milano
fino a sabato 5 febbraio

Pagliacci
libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
con Oksana Dyka (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio) Kristine Opolais (22, 28 gennaio; 3 febbraio), José Cura (16, 18, 20, 22, 25 gennaio; 1, 5 febbraio) Antonello Palombi (28 gennaio; 3 febbraio), Ambrogio Maestri (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio), Alberto Mastromarino (22, 28 gennaio; 3 febbraio), Celso Albelo, Mario Cassi (16, 18, 20, 25, 28 gennaio; 1, 5 febbraio), Gabriele Viviani (22 gennaio; 3 febbraio)
direttore Daniel Harding
regia Mario Martone
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari

Cavalleria Rusticana
libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, musica di Pietro Mascagni
con Luciana D’Intino (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio), Marianne Cornetti (22, 28 gennaio; 3 febbraio), Giuseppina Piunti, Salvatore Licitra (16, 18, 20 gennaio), Yonghoon Lee (22, 25 gennaio; 1, 5 febbraio), Francesco Anile (28 gennaio; 3 febbraio), Claudio Sgura (16, 18, 20, 22, 25 gennaio; 1 febbraio), Ivan Inverardi (28 gennaio; 3, 5 febbraio), Elena Zilio
direttore Daniel Harding
regia Mario Martone
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari