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Persinsala incontra Paola Varesi, responsabile del Museo Cervi e coordinatrice del Festival di Resistenza, la fondamentale rassegna di Teatro Civile che, come ogni anno, si svolge dal 7 luglio (ricorrenza del giorno dei Caduti di Reggio Emilia) a Gattatico (Reggio Emilia) negli spazi esterni della casa contadina di famiglia, oggi adibita a moderno Museo di Storia contemporanea.

Ogni anno la natura stessa della rassegna, legata alle giovani compagnie e dedicata al teatro impegnato, rappresenta una scommessa: qual è il bilancio di questa tredicesima edizione del Festival Teatrale di Resistenza, che cade in contemporanea con il 70° anniversario della Resistenza?
Paola Varesi: «Bilancio assai positivo per la qualità delle Compagnie che vi hanno partecipato e per i temi che hanno portato nei loro spettacoli, tesi ad attualizzare la Resistenza guardando alle Resistenze di oggi, alle questioni che attraversano la vita individuale e collettiva delle donne e degli uomini, dei giovani. Abbiamo così parlato di lavoro, di giovani alle prese con la precarietà come condizione di vita, dello sfruttamento dell’ambiente a cura dei potentati economici; ma abbiamo anche parlato di valori, della necessità di promuovere la memoria e la conoscenza della storia, con attenzione a quella stagione (della Resistenza) che ci ha consegnato libertà e democrazia. Beni preziosi, da difendere perché non sempre beni ‘comuni’: ed è qui che il Teatro Civile, che connota il Festival di Resistenza, si fa occasione di riflessione, di presa di posizione, di promozione di uno sguardo critico sul presente e di vera cittadinanza attiva. In questo senso il Festival è teso ad attualizzare».

Memoria e resistenza: parole che sembrano esprimere una sensazione di nostalgia e difesa di un passato da prendere, pur in senso lato, a modello. Pensa che coltivare questi valori all’interno di commemorazioni possa avere l’effetto opposto a quello sperato di un impegno nel presente volto alla costruzione di un futuro migliore? Come si elude questo rischio?
PV: «Il Festival nasce con l’intenzione di attualizzare i valori della Resistenza, di riportarli all’oggi, misurandoli con il presente per evitare che siano appannaggio di iniziative di mera commemorazione, che pure sono necessarie se le si intende come occasione per non dimenticare e per non derubricare – come è stato tentato – date e appuntamenti fondamentali del nostro calendario civile. Per scongiurare il rischio della nostalgia e della difesa del passato si tratta di mettere in campo momenti e iniziative che ne attualizzino i valori e il significato, soprattutto quando si parla di Resistenza, di libertà, di diritti, di senso del collettivo. Beni preziosi, conquistati duramente, oggi spesso non rispettati, ma di cui va compresa la centralità e l’imprescindibilità, il fatto che siano il fondamento di tutto. Si comprende così il senso del ‘non dimenticare’ non come astratto esercizio di memoria ma dialogo continuo con la storia (che va conosciuta) per capire meglio il presente dotandoci degli strumenti per provare a cambiarlo, questo presente, quando non va bene. Il contributo di riflessione, lo squarcio sulla contemporaneità che intendiamo sollecitare con il Festival vuole essere anche questo».

Quale spettacolo o artista, italiano o straniero, vorrebbe al Festival Teatrale di Resistenza?
PV: «Nessun desiderio particolare, anche perché le compagnie arrivano a noi rispondendo ad un bando. Piuttosto continuare a verificare come il teatro sia ricco di tante eccellenze, spesso non abbastanza conosciute, per tanti motivi. Ecco, il Festival è valorizzazione di queste realtà che hanno meno visibilità, fuori dai circuiti consolidati, che portano in scena spaccati di realtà con un teatro bello, contrassegnato da grande impegno, capacità e preparazione».

Gli investimenti statali sono assolutamente decisivi affinché l’arte resti un bene comune. Allo stesso tempo non si può certo riconoscere in quello del nostro paese un modello di virtù dal punto di vista della gestione del pubblico. Come vede il panorama culturale italiano?
PV: «Non lo vedo bene, nel senso che tutti sappiamo come, anche a livello delle piccole amministrazioni locali, i primo tagli insistano sul capitolo della cultura. E questo perché – al netto delle difficoltà, del patto di stabilità, etc – non si capisce come solo da politiche che mettano al centro la cultura, i beni comuni, che non la sviliscano, si può generare lavoro e ricchezza in tutti i sensi. Preparare dei cittadini consapevoli, aumentare scolarizzazione e occasioni di conoscenza e cultura può generare comportamenti virtuosi che si riflettono poi a livello sociale, e che possono modificare meccanismi negativi, abitudine e convivere con l’incuria, la mancanza di rispetto, che poi si riflettono sulla cosa pubblica e sulla sua gestione. Spesso si verifica anche come si preferisce finanziare grandi eventi facili, di effetto, piuttosto che investire su progettualità educative in senso lato, tese a creare conoscenza, caratterizzate da continuità. A fronte di queste politiche la cultura vera soffre, e soffre il teatro che sappiamo anche a livello di amministrazione centrale non adeguatamente sostenuto».

Qual è il valore di avere Moni Ovadia come ospite d’onore la serata conclusiva del 27 luglio, che, a proposito di Resistenza, ha recentemente dichiarato: «Israele non vuole la pace, i palestinesi vivono in gabbia sotto un assedio continuo»?
PV: «Moni Ovadia è un grande attore, una mente illuminata, un grande interprete del nostro tempo e delle sue contraddizioni, che sa penetrare e comunicare con grande intelligenza. Penso che proprio a fronte di quanto sta succedendo in Medio Oriente la sua presenza al Museo Cervi sia ancora più significativa, con quello che ci vorrà dire interpretando il suo spettacolo (ndr, con Il registro dei peccati, recital-reading sul mondo khassidico). Il rispetto dei popoli, l’autodeterminazione, il richiamo alla pace non possono però nascondere o minimizzare i gravissimi crimini, il massacro che si sta compiendo nella striscia di Gaza a danno dei civili, con vittime che crescono purtroppo di ora in ora».

foto: Museo Cervi

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