Ritratti d’Autore

Lui è attore, regista e scrittore. Lei è attrice e ballerina. Insieme condividono vita e lavoro. Il teatro è la loro massima espressione: si sono conosciuti a teatro, si sono sposati a teatro, passano le loro giornate a teatro tra prove, prime e progetti. La loro compagnia nasce dall’unione dei loro cognomi e rappresenta l’essenza del loro essere. La loro “casa” è accanto alla Basilica di San Lorenzo alle Colonne. Una piccola porta sul lato destro della piazza: è qui che va in scena il teatro “umano” di Paolo Scheriani e Nicoletta Mandelli.

Cosa significa intitolare una stagione all’amore?
Paolo Scheriani: «Ci sono tante parole che ci stanno a cuore. L’anno scorso, con la nostra prima Stagione, ne abbiamo sottolineate alcune: cultura, gioia, sincerità, pace, integrità, educazione, rispetto, dignità, coerenza, purezza, umanesimo, bellezza, gratitudine, anima, lotta, trasformazione, vittoria. Tutte queste parole, negli ultimi tempi, sono state svilite e svuotate del loro significato intrinseco. Le persone, oggi, hanno una sorta di pudore nel pronunciarle, forse perché non ne comprendono più a fondo il significato. Attraverso il nostro fare – che è il fare teatro – cerchiamo di ridare un significato a queste parole. Quest’anno ne abbiamo aggiunta un’altra, amore, appunto. Questa parola, per noi, ha un significato preciso: è quel termine, quell’azione che contempla e riunisce tutte le altre parole. L’amore di cui parliamo è quello che ognuno di noi dovrebbe provare per l’altro e, durante la Stagione, a seconda dei lavori che presenteremo, si manifesterà con diverse sfaccettature e declinazioni».
Nicoletta Mandelli: «L’amore è ciò che muove ogni cosa, è lo slancio propulsivo che ti fa andare avanti, è ciò che ti permettere di vivere bene. Quello che noi cerchiamo di fare, attraverso il teatro, è aiutare le persone a potenziare e ridare significato a questa parola. Ognuno di noi, in ogni istante, decide che tipo di persona vuole essere e, in un’epoca come questa, in cui è difficile capire chi siamo – così frastornati dalle pressioni esterne negative – dare un nuovo significato a questo termine può essere la chiave per capire chi siamo e chi vogliamo essere. Soprattutto, attraverso il teatro, cerchiamo di rendere concreta questa parola>>.

Veniamo alle singole proposte della vostra programmazione. La Stagione è iniziata con una tre giorni dedicata al tema della pena di morte, ora prosegue con Salomè, e non manca la musica grazie a Gianni De Berardinis. Poi ci sono Amleto e il progetto HDEMIA, con laboratori dedicati a tutte le età. Spiegateci queste scelte e cosa c’entrano con l’amore.
P.S.: «Milano umana (con la quale abbiamo aperto la stagione), che è stata una tre giorni dedicata al tema dei diritti umani, e Restiamo umani, che sarà la rassegna teatrale dove affronteremo il tema della risoluzione dei conflitti – anche attraverso il teatro – sono due esempi di come, grazie all’arte, si possano davvero cambiare le cose. In che modo? Semplicemente facendo rinascere la bellezza anche lì dove sembrerebbe non esserci. Nella Salomè si ha la ricerca disperata dell’amore ma anche l’impossibilità e l’incapacità di viverlo. Ognuno dei personaggi, infatti, cerca l’amore nell’altro ma è sordo e, quindi, non riesce a sentirlo né a restituirlo. Lillesand, che come sottotitolo ha quando il teatro vince la guerra, è la storia di una compagnia di attori che, nonostante l’occupazione del loro Paese, decidono di continuare a mettere in scena degli spettacoli clandestini, anche a scapito della loro vita, mossi dal grande amore per ciò che fanno e per la loro terra. Eugenio De Giorgi, interpretando il Tartufo di Molière, il cui sottotitolo è l’amore e altri sotterfugi, ci racconta tutto quello che è proprio dell’intrigo amoroso. E ancora, La casa degli spiriti è un’interessante possibilità drammaturgica per andare a scavare in due applicazioni pratiche del concetto teorico dell’amore: la passione tra uomo e donna e l’amore per la giustizia. Infine, per amore nostro e del pubblico, abbiamo voluto fare una dedica alla letteratura con quattro rivisitazione di classici, insieme a Raul Montanari, e alla musica autoriale italiana, con Gianni De Berardinis».

Teatro alle Colonne. Una piccola porta a pochi passi da una delle chiese più belle e antiche di Milano, la Basilica di San Lorenzo. Un luogo che è rimasto in silenzio e chiuso per molto tempo e dove sembra strano l’allestimento di uno spettacolo. Eppure, voi l’avete scelto come sede. Perché?
P.S.: «Sentivamo il bisogno di una casa artistica, non una casa solo nostra ma di tutti coloro che vogliono condividere i nostri progetti. Prima e dopo ogni spettacolo, c’è sempre un momento conviviale: si beve e si mangia, ci si racconta, si approfondiscono alcuni temi o semplicemente si chiacchiera. Noi non vogliamo avere uno spettatore che entra, guarda lo spettacolo e se ne va. Quello che desideriamo è condividere un pezzetto di strada con gli altri. Qui, al Teatro alle Colonne, abbiamo trovato don Augusto, che gentilmente ci ha accolti. La cosa curiosa, che ho scoperto per caso leggendo un articolo, è che questo teatro – durante la prima metà del ‘900 – rappresentava un’eccezione rispetto agli altri teatri o alle sale della zona. Tra il Carrobbio e piazza Vetra abbondavano, infatti, i palcoscenici popolari sui quali si esibivano gli attori di varietà. Il Teatro alle Colonne era, invece, una sala, incastonata tra gli edifici della parrocchia, dove si poteva assistere a spettacoli con finalità edificanti. Questa cosa ci ha incuriosito perché, probabilmente, si sceglie un luogo perché lì esiste già qualcosa. Noi non abbiamo la presunzione di tendere alla spiritualità. Quello che facciamo è però un tipo di teatro ad alto contenuto umano».

La compagnia scheriANIMAndelli, da voi fondata, si basa su un gioco di parole che, a uno sguardo superficiale, può sembrare solo l’unione dei vostri cognomi. In realtà, se ci si sofferma a pensare si capisce come dietro ci sia tutto un altro significato.
N.M.: «C’è molto di più. Oltre all’unione di vita e artistica c’è quella spirituale, di valori e di obiettivi. Questo gioco di parole è stata una bella scoperta: non nostra bensì del grafico che ha ideato il logo. Credo che lui abbia semplicemente dato forma a quello che eravamo già».

Compagni di lavoro e compagni di vita. Quanto, questo doppio legame influisce sulle vostre scelte, sul vostro modo di essere nei due ambiti?
P.S.: «Si spera influisca sempre positivamente. Dopo 15 anni di vita in comune, posso affermare che il teatro è un elemento fondamentale della nostra esistenza e devo dire che Nicoletta possiede una sensibilità che, in qualche modo, dà senso – meglio di me – a quella parola che si crea grazie ai nostri cognomi. Ho imparato molto da lei».

N.M.: «Tra noi è tutto molto naturale e semplice. Non perché sia scontato bensì perché siamo arrivati al culmine di un percorso importante, bello e difficile, fatto insieme. Quello che abbiamo conquistato pervade tutto ciò che ci sta intorno e spero si effonda anche nelle nostre relazioni con gli altri».

Paolo Scheriani: attore, autore, regista. Ruoli molto diversi tra loro. Pro e contro di ciascuno e quale preferisce.
P.S.: «Fino a qualche tempo fa avevo una sorta di pudore nel dire cosa facevo. L’attore, il regista, il drammaturgo: nasco come cantante e, quindi, pensavo fosse un po’ troppo. Adesso che ho conquistato una certa consapevolezza del mio fare, mi rendo conto che le attività che mi rappresentano meglio sono la scrittura e la regia. Faccio anche l’attore, non mi dispiace, però smettendo forse non ne sentirei la mancanza».

Dall’incontro tra la sua scrittura e i fumetti di Guido Crepax nasce La Salomè.
P.S.: «Quando ho scritto La Salomè, dieci anni fa, sentivo l’esigenza, la necessità di vederla raffigurata prima ancora che rappresentata. Ho pensato quindi di chiedere aiuto a Guido Crepax e lui, inaspettatamente, ha detto sì. È stato un incontro importante e l’inizio di un rapporto di lavoro e di amicizia, che continua ancora oggi con la famiglia di Guido. I costumi e le scene, non a caso, sono di sua figlia Caterina».

Questa stagione è dedicata all’Amore, la scorsa era intitolata Il migliore dei mondi possibili. Il vostro si potrebbe definire un teatro impegnato, che tratta temi difficili, importanti – che inevitabilmente generano una riflessione, sia in chi li mette in scena sia, soprattutto, in coloro che vi assistono. Qual è stata la risposta del pubblico?
P.S.: «Nonostante abbiano fatto di tutto per cercare di lobotomizzarlo, il pubblico ha voglia di pensare, di approfondire, di ricercare. Il nostro senso di fare teatro è proprio quello di dire alle persone che si può riscattarsi, ottenere una rivincita, aspirare alla bellezza. Il teatro, però, deve fare uno scarto attraverso la poetica, non deve gettare addosso tematiche difficili in modo documentaristico – come fanno i mass media. Il compito del teatro, e dell’arte in generale, è di dire: “È vero: ci sono questi problemi, ma insieme possiamo cambiare le cose”. Le persone devono alzarsi dalla poltrona convinte che quella rivincita è possibile, non è solo un’utopia. Gli spettatori lasciano il Teatro alle Colonne – pur dopo aver assistito a uno spettacolo sulla di pena di morte o i diritti umani – sentendosi sollevati perché capiscono che, se questi argomenti si affrontano e si condividono, diventano più sopportabili. Si può davvero fare una grande rivoluzione, che è poi una rivoluzione umana».

N.M.: «Io credo molto in un concetto, forse un po’ orientale, che afferma che noi siamo indissolubilmente il nostro ambiente. Il pubblico, per noi, è stato una sorta di realizzazione. Siamo, noi e il pubblico, due parti che si cercano e si trovano. Teatro umano non significa che noi siamo più umani degli altri ma che, in questo momento di emergenza culturale, abbiamo preso una decisione che va in una direzione precisa. Il pubblico ha capito e ci segue perché c’è tanta gente che vuole cambiare. E vuole che lo si faccia insieme».