Cose ruvide, lacrime, rituali mistici, Sprechgesang e strane creature

Dopo un timido warm-up et una prima intensa giornata dai suoni contrastanti, il nostro “Day II” al Primavera Sound Festival di Barcellona continua nel percorso tra nostalgia e nuovi suoni, sonorità grezze e volontà più classicheggianti

Nel corso dagli anni, il festival catalano ha realizzato la propria volontà di espansione territoriale giungendo anche nel ventre della città, occupando, per qualche giorno, uno spazio importante nello storico quartiere del Raval con tre palchi sui quali si susseguono artisti giovani, nuove proposte e piccole perle da riscoprire. Oggi, venerdì 2 giugno, decidiamo di fare una capatina in questo spazio incastonato tra il Macba et il CCCB, feudo della cultura e dell’arte contemporanea nel pieno centro della storia barcellonese. Ci accolgono le sonorità post-punk ed elettrizzanti dei cileni Miss Garrison, capitanati da Fran Straube, cantante e multistrumentista che ama piazzarsi dietro la propria batteria per segnare il ritmo di una musica affascinante. Lasciamo il palco del Primavera Pro per quello, più importante, della Seat dove troviamo la meravigliosa Julia Jacklin, giovanissima australiana che ci conquista immediatamente grazie ad una voce vellutata, elegante, dalle tinte chiaroscurali che riposano su un folk semplice e che va dritto al cuore. Il sole catalano, la bellezza del luogo e questa voce celestiali sono sul punto di convincerci a restare qui. Per il resto della nostra esistenza. Ma colti da un barlume di serietà, decidiamo di proseguire il nostro festival lasciando da parte il nostro sogno di eternizzare questo momento di pura bellezza.

Lasciando il Raval, notiamo una notifica sull’applicazione ufficiale del festival. L’inaspettata notizia di un concerto non previsto ci fa sobbalzare e stravolge tutti i piani così ben organizzati per tempo. L’appuntamento è per le 20 esatte, davanti al palco Bacardi al Fòrum per un evento che si profila come imperdibile: i Mogwai, che non risultavano nel cartellone del festival, presenteranno, in anteprima mondiale, il loro nuovo disco. Ci sono troppe notizie in un solo messaggio. Se avevamo perso l’annuncio del nuovo disco, ecco che questa notizia funziona anche come recupero di informazioni perse. Come si fa a non amare questo festival? Attraversiamo la città, poi il parco del Fòrum e giungiamo su di un grande prato già popolato da migliaia di persone. Andiamo droit au but per essere il più vicini possibili al palco (e a diretto contatto fisico con la loro musica). Sacrifichiamo i Magnetic Fields (li vedremo domani, forse?) e gli Shellac (valore certo di questo festival autori di due splendide performance nel 2015 e nel 2016) per dirigerci verso questo evento che fa parte della sezione “Unexpected Primavera”. Alle 20 esatte compaiono i favolosi scozzesi, imbracciano immediatamente gli strumenti per suonare, per intero, il loro nono album: Every Country’s Sun. Stuart Braithwaite, che esibisce una splendida maglietta dei Public Enemy con al centro del mirino un’inquietante Theresa May, si posiziona, come sempre, in posizione defilata, mostrando un’allergia verso qualsivoglia divismo da musicista, mentre il bassista Dominic Aitchison sembra aver attuato una crasi sartoriale tra un taglialegna canadese e Bon Iver. Immediatamente le note della prima traccia dell’album (che uscirà in settembre per la Rock Action, etichetta fondata dalla stessa band), inondano la spianata che si para innanzi al palco del Bacardi. Coolverine è una composizione di ritmi secchi e di atmosfere oniriche che virano verso un sogno costruito come un’architettura circolare, dal quale potremmo non uscire mai più. Rock Action e Hardcore Will Never Die, But You Will sembrano qui scontrarsi per dare vita ad un’intensa nuova opera della band scozzese. Party in the Dark ci riserva un’altra sorpresa: i Mogwai possiedono una voce! Braithwaite libera un canto ruvido e estremamente anti-pop, mentre la musica rientra in canali più rock e meno “post”. È il tempo, in seguito, di Brain Sweeties, con una intro che ricorda Hungry Face, prima traccia della soundtrack della serie francese Les Revenants, pubblicata nel 2013. Quello presentato a Barcellona sembra, ad un primo ascolto, un lavoro meno pulito rispetto ai precedenti, leggermente più disordinato, ma perfettamente funzionante. Non mancano le cavalcate inebrianti che trasportano lontano, in un crescendo che raggiunge un climax puntuale di equilibrio tra bellezza e violenza, in perfetto stile Mogwai. Incipit onirici, sviluppi di un rock estroflesso financo violento e violentato, con puntuali sorprese vocali che appaiono naturali e intrinseche alla proposta affascinante e senza fine di questo gruppo. Il concerto termina con tre chitarre che si rincorrono, si assaltano, in una volontà di embricazione saturante. Che meraviglia questo concerto a sorpresa, decisamente uno dei momenti più belli ed intensi di questa edizione.

Per riprenderci da questo concerto, cosa c’è di meglio di un po’ di sano e vecchio punk? Ecco i Descendents, storica band californiana la cui storia è segnata da numerose battute d’arresto, lunghi iati e reunion. Unico membro superstite  della gruppo originario, il batterista Bill Stevenson mostra di essere ancora in ottima forma, mentre Milo Aukerman, storico cantante della band, distrugge qualsiasi nostra volontà di interrogarlo sulla propria età. Come non si chiede l’età a Greg Griffin. Se l’incipit del concerto è una richiesta di perdono al pubblico per aver eletto Donald Trump, vergogna epocale, colpevole di aver gettato gli Stati Uniti in una crisi esistenziale, l’inizio del set appare in perfetta linea con le parole di Aukerman: Everything Sux. Il concerto è un capolavoro di coerenza e di forza. Una lunga serie di brevissime canzoni (alla fine saranno ben 30 i pezzi suonati a Barcellona), violente scariche di liriche arrabbiate, inni generazionali, piccoli concentrati di ruvidezza, in puro spirito punk. Moltissimi i fan di una volta ma anche numerosissime nuove reclute che vivono profondamente lo spirito proposto dai quattro americani, in un volontà di scontro con una certa contemporaneità (e facendolo con una modalità che a noi piace molto).

Ci godiamo tutto il concerto prima di passare a quello degli Arab Strap (dimenticandoci completamente di Mac DeMarco), chiamati all’ultimo momento per sostituire Grandaddy. Senza dubbio, l’apparizione del gruppo di Glasgow rappresenta una delle più belle sorprese della sedicesima edizione di questo festival. Annunciati da una musica tipicamente scozzese colma di cornamuse, ecco che il gruppo capitanato da Aidan Moffat e Malcolm Middleton inizia il brevissimo concerto (solamente cinquanta minuti ma di altissima qualità) con l’introduttiva Stink per proseguire con l’incubo inquietante di Fucking Little Bastards dove chitarra e basso creano un’atmosfera pesante e angosciante, mentre la voce di Moffat ci scaraventa vent’anni indietro, quando la più grande città scozzese si vantava di essere una capitale ed un punto di riferimento della musica europea. Dieci meravigliose perle provenienti dal meraviglioso repertorio del gruppo (che non registra album in studio dal 2005), offerte ad un pubblico conquistato dalla magia di questa musica, da uno slowcore che segue la proposta degli Slint in grado di anticipate tutta la scena post rock europea della fine degli anni Novanta. La meravigliosa Girl of Summer (dall’album Mad for Sadness del 1999) accoglie il parlato del cantante depositandolo su una chitarra già esageratamente post-rock. Con Don’t Ask Me To Dance il parlato diviene carezzevole, dolce, adagiato su di una forma canzone tradizionale sempre sul punto di crollare. Moffat riveste il ruolo di cantante-cantore, eccellendo nel ruolo che ha reso David Tibet il nume tutelare del genere (e un genio incontrastato), mantenendo certamente il gradiente di inquietudine ma disinteressandosi di quello eminentemente apocalittico. Ed è proprio lì, in quel punto di crisi inattesa, di rottura insensata, che le lacrime iniziano a scorrere mentre la chitarra insiste su di un semplice giro che si ripete ab libitum. Il sogno si interrompe dopo nemmeno un’ora di bellezza pura, chiusa dal brindisi che Moffat propone in onore di Grandaddy (ricordiamo che la cancellazione della data a Barcellona e di tutto il tour della band americana è dovuta all’improvvisa morte del bassista Kevin Garcia, avvenuta il 2 maggio).

Dopo cotanta bellezza, ci immergiamo in un bagno mistico con i Swans. Arriviamo davanti al palco del Pitchfork accolti dalle note di Screen Shot, apocalittica cavalcata di chitarre, acuita da un piano tagliente e supportata da un basso pesantissimo. Ecco che la scena del Pitchfork diviene il luogo atto allo svolgersi di un rituale sconosciuto ma collettivo, guidato dallo stregone Gira, partito dalle alture losangeline d’oltreoceano ed giunto in questo estremo istmo marino occitano per un rituale necessario. Questa reincarnazione di un antico chumash chiama a raccolta i collaboratori più stretti, gli iniziati privilegiati che lo sostengono, creando un circolo energetico sempre più consistente, dando le spalle al pubblico (proprio come nella messa tridentina).  Il rigore e l’intransigenza del potente maestro venuto da lontano fa sì che il rituale abbia una durata lunghissima, quasi interminabile, perché è necessario giungere al perfetto equilibrio tra le forze e per fare ciò l’unica via da percorrere è insistere nella stessa identica direzione: mai volgere lo sguardo altrove, mai cambiare il percorso. Una volta che il rituale è lanciato, non è possibile interromperlo e i fedeli chiamati a raccolta ne subiscono l’influsso magico fin dalle prime battute. Questa celebrazione è composta da due momenti contrastanti, che devono esibirsi e sussistere per dare luogo alla buona realizzazione del rituale. Il primo momento è quello della “tensione”. Il grande maestro Gira, figura iniziale e terminale del rituale, procede con intransigenza chiedendo una partecipazione totale dei fedeli al fine di creare una difficilissima e delicatissima ascesa tensionale. Voce, corpo, gesti, interiora, sangue, suoni: tutto è utile e necessario per l’ottenimento del risultato finale. Ecco che questa ascesa ipotattica, giunge ad un punto di rottura, di crisi. Il secondo momento di questo rituale collettivo è, infatti, il momento dell’ “esplosione”, l’attimo in cui il climax emozionale viene tranciato dalla violenza esplosiva, del taglio netto generale e che avviene, solo e solamente, quando la trance del maestro ha raggiunto il limite interiore, sfiorando ed abbattendo la barriera dell’invisibile e che si esprime in un unico, lunghissimo, suono multidirezionale. Detto in altre parole: Cloud of Forgetting e Cloud of Unknowing. Il lunghissimo show di Barcellona è l’occasione di presentare il nuovo album (live) uscito pochissimi giorni fa: Deliquescence. Ed ecco che giunge il momento di The Man Who Refused To Be Unhappy, con un giro di basso rubato ai NEU!, per poi terminare con la lunghissima, lisergica e terribile The Glowing Man, mezz’ora di Swans allo stato puro. Il venerabile Gira agita le braccia e le mani in aria, mescolando le sacre acque che circolano intorno a lui, per poi innalzare le mani al cielo per accarezzare il respiro degli dèi. Poi il gesto terminale: si scateni la violenza. E il canto estroflesso di Gira ci dà il colpo di grazia.

Rintronati, liberati, purificati (o, forse, proprio il contrario), risaliamo verso il palco centrale del Ray-Ban per il concerto dei Sleaford Mods. E per la prima volta in tre anni siamo in presenza di veri e propri tecnici. Con grande difficoltà, il duo inglese porta a termine la prima canzone, Army Nights.  E noi siamo colpiti da un flow continuo e serrato ma senza essere rap, scarno come il punk, ruvido, semplice. Superamento del rap, del punk e dell’elettronica, e tutto ciò mantenendo un’intransigente rabbia da strada. Gli Sleaford Mods non propongono qualcosa di nuovo, ma riescono nell’impensabile compito di produrre qualcosa di vecchio mai sentito prima. Il flow interminabile di Jason Williamson è ipnotico, Sprechgesang che lo trasforma in un cantore, poeta, voce sporca della verità. Violento, così straordinariamente urbano, il duo di Nottingham è l’espressione più beefheartiana che la nostra contemporaneità sta producendo. Una vera e propria meraviglia.

Decidiamo di andare a vedere da vicino alcuni strani animali. Si chiamano Front 242, sono belgi e vengono da un’altra epoca. E non siamo certi che siano terrestri. Siamo in primissima fila e possiamo quasi (ma non vogliamo assolutamente) toccarli con mano. Parte una intro epica, plasticosa e un po’ troppo anni Ottanta. Siamo schiacciati da un sound come non lo si sentiva…dagli anni Ottanta. E non riusciamo veramente a capire il motivo per il quale dovremmo sentirlo ancora oggi. Pionieri, fondatori dell’EBM (Electronic body music), i Front 242 non sembrano volersi arrestare e continuano a percorrere il mondo proponendo un assurdo incrocio tra discomusic e industrial, con basi hardcore che richiederanno un intenso ascolto delle opere degli Atari Teenage Riot per purificare le nostre orecchie. È stato bello assistere ad un’esibizione di strane creature che pensavamo essersi estinte durante l’ultima glaciazione, ma la stanchezza ci spinge a direzionarci verso l’uscita.

Attraversando il Fòrum, assistiamo a qualche minuto del set di Jamie XX, che ha sostituito all’ultimissimo momento Frank Ocean. Sono le tre di notte inoltrare e quando sentiamo la voce di Frank integrata ad un mashup di Jamie, decidiamo che è l’ora di rientrare. Niente di personale, Jamie caro. Solamente il fatto che Franky aveva dato forfait. E a noi andava bene cosi. Appuntamento a domani, per il nostro ultimo giorno di festival!

Primavera Sound Festival 2017
Parc del Fòrum
Muelle de la Marina Seca, C/ De la Pau, 12 – Barcellona (Spagna)
dal 31 maggio al 4 giugno 2017

programmazione completa
www.primaverasound.es