Qui mira e qui ti specchia,/Secol superbo e sciocco

Ad Avamposti Festival sono protagonisti i migranti. Quelli di ieri come quelli di oggi – senza retorica ma con coscienza critica, com’è nelle corde del Teatro dell’Orsa.

Una breve digressione che, si spera, il lettore perdonerà. Anni fa visitammo Ellis Island, sparpagliati tra frotte di turisti ancora non usi ai selfie ma elettrizzati di salire sulla Statua della Libertà – e che facevano tappa sull’isolotto, edificato con i detriti degli scavi della metropolitana di New York, più perché compresa nel biglietto che per reale convinzione. Eppure a noi, italiani, quelle valigie di cartone o legate con lo spago (come si vede nei film o nei documentari dell’Istituto Luce) ricordavano storie reali, intime, di visite mediche che sembravano i controlli dei veterinari sui cavalli da corsa o quelli degli schiavisti prima della compravendita della merce umana; dei genitori dell’amica belga che, dall’Italia, erano stati più o meno spediti ai lavori forzati nelle miniere di carbone grazie all’accordo firmato da Alcide De Gasperi (che costò oltre ottocento vite umane). Dei migranti calabresi, siciliani, campani in una Torino disseminata di cartelli recanti la scritta: “Non si affitta ai meridionali”; di prozii emigrati in Argentina all’inizio del Novecento in terza classe, su transatlantici meno hollywoodiani del Titanic di Di Caprio; dei giovani laureati, ricercatori, teste pensanti che, oggi, preferiscono emigrare che vivere di stage gratuiti facendosi prendere in giro da chi li addita come bamboccioni – e intanto non offre loro né lavoro né reddito di cittadinanza, e tanto meno un sano ricambio generazionale.
Digressione terminata. Giusto per rimettere qualche fatto nel casellario e smetterla con le insulse polemiche televisive: chi non ha memoria, non ha futuro.
A Calenzano, ieri sera, è andata in scena l’altra faccia della medaglia: quella dei migranti che, dall’Africa, arrivano da noi, in Italia. Frammenti autentici e ricordi, drammaturgicamente intessuti con sprazzi di vita immaginata, eppure reale e, troppo spesso, consegnata solamente alle cronache e ai talk show di un sistema di informazione che insegue lo scandalo e liscia la pancia – senza mai avvertire che il vero scandalo è non domandarsi come mai qualcuno sia costretto a emigrare, senza mai comprendere che il cervello e il cuore dovrebbero contare più della pancia.
Ma i cinque protagonisti di queste piccole storie di tragedia comune si offrono agli occhi dello spettatore, dell’altro da sé, anche attraverso il canto, la pantomima, la battuta ironica, la riproposizione di un rito antico come il preparare una tazza di thè, il gioco, e una porta – che è sia quella della casa lasciata o di quella agognata; sia un rimando, forse inconsapevole, alla Porta del non ritorno, sotto la quale passavano gli schiavi prima di essere venduti ai trafficanti in Dahomey (l’attuale Bénin); sia il simbolo di quella Europa che plaudì alla caduta del Muro, quando l’Urss era il nemico e gli occidentali si ammantavano di cuore tenero per i poveri abitanti dei Paesi dell’Est che non potevano muoversi liberamente.
Ma non pensiate che lo spettacolo sia in sé retorico, didattico o prolisso. Forse lo siamo noi nel cercare le stratificazione di senso che lo permeano, rendendolo un insieme piacevolissimo, godibile anche da un bambino – a un livello più superficiale; ma denso di significati sempre più profondi e stringenti, a mano a mano che lo si peli delle sue tante bucce, come una cipolla.
Questo è il mio nome ha una leggerezza e una positività intrinseche, la capacità di suggestionare e commuovere, e la sincerità dei suoi protagonisti a reggere un condensato di vita ritmato con i tempi precisi e rigorosi del teatro professionale.
La nota positiva, nel colloquio al termine dello spettacolo, scoprire che i cinque rifugiati di due anni fa, oggi sono tutti regolarizzati e lavorano a Reggio Emilia. La nota negativa che, per colpa della miopia della legge Minniti-Orlando (che lede i diritti dell’individuo, può dirsi incostituzionale ed è persino contraria alle normative europee, tanto per intendersi), un gruppo di richiedenti asilo non ha potuto vedere lo spettacolo perché gli stessi hanno l’obbligo di rientro nelle strutture di accoglienza (che continuano a cambiare nome ma non sostanza) alle ventuno – come fossero dei reclusi in semilibertà.

Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito di Avamposti CalenzanoTeatroFestival:
Teatro Manzoni

via Mascagni 18 – Calenzano (FI)
venerdì 22 settembre, ore 21.30

Teatro dell’Orsa presenta:
Questo è il mio nome
ideazione e regia Monica Morini e Bernardino Bonzani
collaborazione alla drammaturgia Annamaria Gozzi
coordinamento Marco Aicardi
con Ogochukwu Aninye, Djibril Cheickna Dembele, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe e Lamin Singhateh
(Premio del pubblico 15° Festival Teatrale di Resistenza 2016 e Premio Museo Cervi – Teatro della Memoria)