Quel che resta del nero

Triplice sfida sul palco del Teatro dell’Elfo. Nella pièce Rothko, il pittore maturo e arrogante, contro l’allievo impulsivo e acerbo. Fuori, nella costruzione dello spettacolo, John Logan, maestro dei testi, e Francesco Frongia, regista dello spazio. Tra le due dimensioni, Ferdinando Bruni alle prese con il suo bisbetico personaggio. Nessun perdente.

«Di una cosa sola ho paura, amico mio, che un giorno il nero inghiotta il rosso».

Essenziale, evocativo, enfatico. Così è John Logan, così è il suo scrivere, così è Rosso. Un turbinio ordinato di parole ed espressioni, teorie asettiche che si fondono con le emozioni e la realtà pratica, pennellate dense e aerei discorsi, filosofia, arte, piccoli ricordi personali, grandi paure, opinioni, incomprensioni, esplosioni di rabbia, fraintendimenti e di nuovo arte. Una completezza rara che galleggia in una bolla scarlatta e trasparente dove tutto coesiste ma nulla si mischia, ogni cosa resta chiara, distinta, netta, insolubile. Questo è il testo, ma non basta. È anche tremendamente teatrale, riesce ad essere allo stesso tempo tradizionale e di ricerca, ed esprime nel più riuscito e moderno dei modi l’antico e spesso inafferabile senso del tragico. Bellissimo.
Bellissimo, e difficilissimo. Scegliere di portare in scena una pièce così completa e complessa, interpretare dialoghi così pieni e totali e azioni obbligate in uno spazio totalmente connotato è una sfida pericolosa. I rischi sono la noia, l’incomprensione, l’estetica fine a se stessa, l’autoreferenziale.

Francesco Frongia l’ha vinta, questa sfida. Una scena dirompente, vasta, completa, quasi cinematografica per la cura del dettaglio e l’abbondanza di possibili punti di vista; anzi, forse troppo cinematografica, tanto da far rimpiangere l’assenza dell’occhio artificiale, della video camera, dei dettagli, delle panoramiche, dei movimenti di macchina e dei cambi di inquadratura, insomma di una visione mobile e variata dello spazio. Il laboratorio di Rothko è ricostruito nel pieno rispetto del verosimile ma senza perdere di vista gli accenni simbolici e le necessità sceniche. Ogni oggetto ha un suo valore, ogni posizione un suo motivo e una sua funzione. Nel grande spazio senza quinte, illuminati dalle luci al neon o in quelle più soffuse della finzione teatrale (e della scelta di Rothko di non dipingere né in piena luce né nella luce naturale), i due personaggi vivono il loro rapporto scontrandosi tra di loro, con la realtà, e con la pittura. Tra loro, vere protagoniste, le importanti riproduzioni delle grandi tele del pittore americano, a riempire gli occhi di rosso e di emozioni, anch’esse mosse nello spazio, anch’esse vive quindi; a scandire i passaggi da una scena all’altra, a riempire le ellissi temporali e dare la percezione dell’evolversi dei giorni e dei rapporti, nella penombra, i quadri si lasciano spostare dagli attori, con un risultato efficace ma ripetitivo e alla lunga prevedibile.

Il complesso personaggio di Rothko ha il corpo e la voce di Ferdinando Bruni, al quale vanno, a ragione, gli applausi e l’entusiasmo del teatro gremito, di un pubblico adorante che già dall’inizio reagisce sensibile a ogni minimo segnale, pronto a lasciarsi ammaliare. E Bruni soddisfa le aspettative, con un’ottima prova attorale in un ruolo complesso per memoria, intensità e verità. Non del tutto scongiurati, purtroppo, i rischi di una ruvidezza eccessiva o di un confronto impari con il magnifico Al Pacino di Scent of a Woman. Ma nel complesso, un personaggio davvero riuscito.

Meno convincente, seppur evidentemente dotato, il giovane Alejandro Bruni Ocaña alle prese con un carattere del quale sfugge l’evoluzione, forse per colpa della struttura frammentata – a episodi – che ce lo presenta troppo cambiato tra un’ellissi temporale e l’altra, a discapito della sua credibilità. A volte, si sente che il disagio è recitato o l’esasperazione finta, sprecato il racconto della morte e della neve – che, invece, di decollare in un momento di tragico perfetto, viene risolto con un’enfasi per nulla efficace.

Il finale riscatta tutti con un po’ di sano buonismo. Ma negli occhi resta, indelebile, il rosso: l’urgenza con la quale due uomini – piccoli, di fronte all’immensità di una tela vuota – devono usarlo per combattere il bianco, in una scena di pura estasi.

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Lo spettacolo continua:
Teatro Elfo Puccini
c.so Buenos Aires, 33 – Milano
fino a domenica 3 giugno
orari: ore 21.00 (domenica ore 16.30)

Rosso
di John Logan
regia, scene e costumi Francesco Frongia
traduzione Matteo Colombo
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
luci Nando Frigerio
datore luci Michele Ceglia
attrezzista Federico Visconti
capo macchinista Giancarlo Centola
macchinista Simone Guarino
sarta Ortensia Mazzei
assistenti alla regia Valeria Nucera e Matteo De Mojana
credit photo Luca Piva (progetto grafico Plum)
produzione Teatro dell’Elfo
si ringrazia Claudine Dupeyron